Erano anni che me ne stavo un poco acquattato: avevo cambiato casa e poi, impigliato in quel lavorino, me ne stavo per lo più nel tempo mio, soprattutto stanco di ascoltare me stesso, i miei pensieri girare come una ruota all’aria. Di giorno immobilizzato al sedile della macchina, e la sera risucchiato informe nella poltrona davanti alla televisione fino a mezzanotte, che rimbalzavano nelle tempie pezzi di film fra una pubblicità e l’altra.
Passano età senza tempeste, che si eclissano le grida del sangue. E così stupivo me stesso: livido, ferrigno, silenzioso, annebbiato e saldo nella penombra. Fatto il pensiero rauco, sordo lo sguardo ai colori; variazioni di grigio, solo, come in un noir; monosillabi appiccicati alle cose come etichette, cauto e leggero, così vivevo una sorprendente solitudine: che le donne, remote antagoniste, a me, ormai estinto, sputavano addosso.
E fuori di scena, nell’unica scena della sera, disegnavano ombre e luci sul mio naso la tele accesa, appunto, e poi il braccio proteso a una birra, il livido neon del frigorifero.
Guidavo e ascoltavo la radio, cigolavano i tergicristalli ritorti e dicevo a me stesso: la devo pulire, gettando l’occhio ai tappetini dell’auto, al cruscotto segnato dal dito nella polvere. Fermo in tangenziale armeggiavo a cercare i canali in FM.
E mi attraversava come il frullo del pettirosso, specie la sera, illuminando coi fari la strada, la nostalgia d’una donna, poiché mi sovvenivano frasi e pensieri a volte, che avrei voluto dire. Mi addormentavo rannicchiato nel letto, le braccia fra le gambe piegate. Ero un uomo bambino di quasi trent’anni. Bevevo le mie birre, ma senza spine. A volte mi ubriacavo come addormentandomi e socchiudevo gli occhi a una pace un po’ sorda, un po’ offuscata. Non ne disprezzavo la muraglia polverosa. Gli amici miei? Risucchiati in quadri diversi, soffrivamo di cronica stanchezza: all’ultimo viaggio intrapreso, dopo due ore accostammo la macchina per dormire fino al mattino.
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Claudio Menni | Gardo Mongardo