La prima adolescenza è il regno delle cose che accadono ancora agli altri.
Nelle notti d’estate stavamo con le finestre aperte. La villetta l’avevamo presa in affitto con tutta la famiglia, in una città tra la Puglia e la Basilicata.
La villa era sul lungomare, su cui si alternavano spiagge libere e lidi privati.
Ogni tanto prendevamo un ombrellone alla Medusa, ma il più ambito era l’Albatros.
L’Albatros era per ricchi. Aveva anche un campo da tennis.
Dico per ricchi perché ho la sensazione che negli anni ’80 e ’90 si potesse esserlo davvero, senza sensi di colpa.
Il sabato sera l’Albatros si trasformava in una discoteca.
Ci andavano i miei cugini più grandi. Non so altro.
Di notte non facevo che girarmi e rigirarmi nel letto. Volevo solo dormire, svegliarmi, fare colazione e andare a mare il mattino dopo con gli zii o i miei genitori.
I cugini più grandi dormivano fino a tardi.
Prima di addormentarmi osservavo il geroglifico di un ragno morto stampato sul muro accanto al letto.
Dalla finestra aperta arrivava la musica dell’Albatros.
Una canzone dietro l’altra, si assomigliavano tutte.
Il divertimento lo percepivo nel ritmo, o meglio nella fretta di quel ritmo.
Vedevo i volti dei miei cugini più grandi confusi in una folla ubriaca e festante.
Un gioco da adulti, il suo movimento generale. La fretta di divertirsi nei tre o quattro fine settimana a disposizione prima di tornare in paese.
Qualche volta puntavano un faro nel cielo. Il fascio luminoso attraversava per qualche istante lo schermo nero della finestra aperta e poi spariva.
Allora pensavo a una specie di Bat-segnale.
Mi chiedevo chi fossero i criminali, quale delitto avessero appena compiuto.
La domenica io e l’unico coetaneo tra i miei cugini ci svegliavamo con i ritornelli di quelle canzoni ancora in testa.
Rhythm is a dancer, it’s a soul companion, you can feel it everywhere.
La da dee da da da, be my lover, wanna be my lover?
Senza dimenticare la glossolalia frenetica di Scatman John.
Tutte quelle canzoni avevano qualcosa che ci sfuggiva, qualcosa di inaccessibile.
Se non era il sesso delle voci negre, come nel caso di La Bouche, Haddaway o Corona, allora erano le implicazioni politiche, per quanto strampalate.
Il Bliss Team col remix di People have the power di Patti Smith, ad esempio, o quelli, numerosi, di Zombie dei Cranberries.
E poi c’erano gli Snap! che mescolavano rap e dance europea.
Che significava? Cosa si nascondeva dietro il ritornello assassino di Rhythm is a dancer?
Allora un modo per rifarci erano gli 883.
La cassetta di Hanno ucciso l’uomo ragno, con la copertina da fumetto con il “Continua…?” nel riquadro in basso, era un gioco puro, senza altre implicazioni.
Il cadavere del supereroe nascosto sotto il telo bianco il nostro segreto oggetto del desiderio.
Il resto dell’album non ci interessava, non lo ascoltavamo neppure. Ma quella canzone restava un racconto perfetto, che ci portava a congetturare sull’omicidio dell’Uomo Ragno come in un albo ancora inedito, addirittura apocrifo.
E poi era facile ascoltarla in loop: qualche secondo indietro e ripartiva daccapo col fruscio del nastro, le sirene dell’ambulanza e l’attacco, caldo e vaporoso, della voce di Max Pezzali.
L’unica preoccupazione era la leggenda circa il progressivo consumarsi delle musicassette.
Per star sicuri, di ritorno dalle vacanze l’avremmo duplicata.
*
All’Albatros sono tornato di giorno, da adulto. Forse per rimediare al fatto che di notte non ci sono stato mai, neppure da adolescente compiuto.
Col tempo abbiamo smesso di andare in vacanza da quelle parti; in ogni caso, crescendo avevo ormai sviluppato un gusto che mi avrebbe impedito di mettere piede in un posto in cui si suonava quella musica che intanto si era fatta più veloce, regredendo nelle voci bambine e nei bambolotti sexy degli Aqua o delle Spice Girls.
I remix dei pezzi impegnati erano spariti del tutto.
La città dell’Albatros, invece, era diventata celebre per altre discoteche lontane dalle spiagge.
E per me quel grosso uccello di mare non era ormai che il protagonista di una canzone degli Iron Maiden ispirata da un poema di Samuel Taylor Coleridge.
*
Il giorno in cui sono tornato allo stabilimento c’era vento forte di scirocco.
Annusavo, trattenendolo più che potevo, il profumo di ginepro e lavanda, che da bambino associavo a quello di salsedine e carta da fumetto.
All’ingresso c’era ancora la pavimentazione in cotto e più in là il campo da tennis, il cemento delle cabine e la spiaggia, adesso un po’ più corta.
Anche lo Jonio, sullo sfondo, sembrava essersi ritratto, avvicinandoci a qualcosa che non conoscevamo ancora.
Ho camminato per un po’ verso la spiaggia libera. C’era un signore sulla sessantina con un lungo metal detector simile a un aspirapolvere.
Era abbronzato come un bracciante o un pescatore.
Il signore mi ha visto e si è avvicinato. Aveva voglia di chiacchierare, non mi sono sottratto. Aveva un alito pesante, di alluminio o stagnola bruciata.
Mi ha raccontato delle monete di epoca romana che aveva trovato tanti anni prima su quella stessa spiaggia. E poi di quella volta che aveva visto un elicottero abbassarsi sull’acqua, proprio lì davanti, per soccorrere un sub disperso in mare.
Gli ho detto che la storia del sub me la ricordavo anch’io, anche se doveva essere successo quando ero molto piccolo.
Quando il sole si è abbassato dietro la sagoma scura dell’Albatros è stato chiaro a entrambi che era ora di salutarci.
Avrei voluto chiedergli se non aveva avuto anche lui la sensazione di trovarsi lì anni dopo uno strano omicidio, la sensazione, soprattutto, che sia il cadavere che l’assassino non fossero mai esistiti. Ma alla fine ho detto solo arrivederci e sono tornato verso la mia auto.
Più tardi, da qualche parte – nella mia testa o nella mia macchina, sulla statale buia e deserta – suonava un vecchio blues degli Stones: una volta, due volte tre volte e poi in loop fino a casa.