A volte il ritardo è il momento più giusto per certi incontri. E settembre è certamente il mese più adatto per scoprire Tu t’è scurdat’e me di Liberato: beato me, allora, che per certi miei tic snobistici l’avevo ignorata finora.

Storia di un sogno d’estate piena, di un amore salato poi sfumato nel pastello vaporoso d’inizio autunno, Tu t’è scurdat’e me è una delle poesie più belle che mi sia capitato di ascoltare ultimamente.
Quanto cuore c’è in questa canzone? La sola idea che gli adolescenti di oggi abbiano la fortuna di avere una simile colonna sonora per i loro amori estivi mi riempie gli occhi di lacrime ogni volta che l’ascolto.

Piccolo inciso autobiografico. Quando attorno ai sedici anni scoprii che non esistevano solo il pallone e gli amici ma anche le femmine, iniziando così a struggermi per loro, d’estate non c’era che Eros Ramazzotti con Più bella cosa. In autunno poi si ripiegava sulla dance demenziale degli Aqua, e così crescendo mi sarei pian piano rifugiato nel rock anglofono.
Ora, al di là dei gusti musicali, il rimpianto sta tutto nella qualità del mio immaginario di allora: per un adolescente meridionale, avere qualcosa di simile a Liberato sarebbe stato fantastico, negli anni Novanta; condividere un immaginario comune con chi è ti è più prossimo significa sentire che c’è qualcuno che sta cantando te, proprio te, e non un altro.

Ma torniamo alla canzone. I riferimenti a Napoli del testo, incrociati con estrema sensualità dalle rime baciate (Care ’ngopp’ ’o golf’ ’na stella / Guarda ’e fuoc’ abbascio Furcella) sono noti a qualsiasi essere umano a sud di Roma, tanto più che tutti i meridionali vivono un po’ nel mito e nei suoni di Napoli (probabilmente per ragioni di rotte commerciali, oltre che di vecchie dominazioni); lo stesso per i luoghi di bellezza e decadimento del bellissimo videoclip di Francesco Lettieril’acqua trasparente del golfo, i monumenti mangiucchiati dall’umido, i paninari kitsch sul lungomare, le collane d’oro con Cristo in croce, eccetera.

Quanto alla lingua: parlare di musicalità del napoletano è banale, ma mai come in questo caso – con quella voce delicata, a tratti sommessamente furiosa – Liberato sa dare sostanza sonora al riaccendersi del ricordo dell’amore estivo; il risultato è una malinconia antica e presente insieme, restituita sia attraverso i dolori lievi tipici dell’appucundria campana (“O scur è tutt’ blu”, verso che sarebbe piaciuto tanto al bluesman Pino Daniele quanto a Giacomo Leopardi, che a Napoli ci morì) sia tramite rime che rimandano a un sentimento amoroso declinato in salsa decisamente più contemporanea (e non meno poetica: “Ciento bomb’ / Ma nun sent’ ’a ’bott / Je cu tte ce so’ rimast’ asott”).

Musicalmente abbiamo delle sonorità sfacciatamente ancorate al presente, ovvero al già classico armamentario di autotune, tastiere vagamente caraibiche e TR-808 a palla che trascende ormai i generi, includendo un po’ di tutto dall’hip hop/rap alla trap (a proposito di quest’ultima, un mio amico l’accosta in genere alla candidosi: credi di essertene sbarazzato, ma poi te la trovi sempre tra le gambe).

Certo, in tutto questo bisogna mettere in conto l’operazione a tavolino: il pacchetto, tra estetica patinata e sound contemporaneo, è pressoché perfetto, e la questione dell’anonimato non fa che aumentare un certo hype permanente, per usare un ossimoro.
Ma sapete, che Liberato sia il frutto di una serie di furbate (è Calcutta? è – magari! – Francesco Di Bella? Il dissing con Nino D’angelo era vero?), o che sia il tentativo di raccogliere tanto un pubblico di amanti del neomelodico quanto di ascoltatori indie, la cosa non ha la minima importanza: l’arte non è mai un’inchiesta sul vero, ma flirta e cincischia sempre col finto; tutt’al più il mistero circa l’identità di Liberato potrebbe indurre a soffermarsi su questo: nel momento in cui tutti noi diventiamo personalità pubbliche e la privacy è al minimo storico (lo sbirro Facebook chiede sempre più spesso i documenti, ultimamente), forse il destino delle star è quello di vivere nascoste tra gli ex normal people – magari, perché no, proprio per meglio assorbirne e cantarne le vite…

Ma davvero tutto questo ha pochissima importanza, di fronte al fatto che con Tu t’è scurdat’e me Liberato è riuscito a costruire un microcosmo universale, composto di luoghi geografici, lingua e perciò sentimenti, in cui un certo numero di persone può riconoscersi e trovare dignità per ciò che vive e soprattutto sente. Che poi è quello che dovrebbe sempre fare la poesia.