Allora non sapevo nulla del mio estetismo,
né che l’arte più pura e perfetta che esista sulla terra
è quella living, cioè della vita, dell’apparizione fisica
in un determinato momento e mai più.

Goffredo Parise, Lontano

L’opera quindi come “stato”, e non più – finalmente – come prodotto, frutto di un’imposizione: come stato scavato e ricavato nel presente, scagliato in esso, e non più emesso da una zona estranea e sterilizzata; come campo di possibilità e punto in cui precipitano le relazioni umane; come processo vitale. (Uno stare come, gravemente implicato nel rumore bianco dell’esistenza, con tutte le sue imperfezioni e tare – e non più ipoteticamente e ipocritamente fuori da esso.) E in quanto tale dunque una non-opera, una non-forma assolutamente e radicalmente incoerente con ciò che vediamo attorno a noi, con ciò che è diventata nella stragrande maggioranza l’arte contemporanea – simulazioni linguistiche.

Opere che per costituzione non sono propriamente tali – piuttosto, elementi che compongono una narrazione, un mood, un’atmosfera. Segnano, cioè, una temperatura. Sono oggetti al di sopra e al di sotto, al di là e al di qua dell’opera d’arte: provano a sfuggire al proprio statuto (tradizionale?), e anche al proprio tempo. Possiedono una natura mobile, mutevole, transitoria, e volentieri tendono alla condizione di “non-più-opere”. Sistemi costruiti dall’artista per preservare un “sentimento” indefinito e sfuggente; strutture labili, animate da una forma di leggerezza pachidermica.

Opere del XXI secolo che guardano di traverso, in tralice – che non vogliono essere opere, che non si fanno afferrare se non di sfuggita, come un cane che attraversa la strada o come un gioco di riflessi e riverberi lucenti per strada, sulle carrozzerie delle auto – e artisti che non vogliono essere chiusi, né rinchiusi – artisti che interpretano in continuazione e di continuo infiammati il mondo vivendo pienamente al suo interno e non (al sicuro?) nell’area del recinto – paludosa, paludata – artisti che si relazionano con gli altri in molti modi (economici, sociali, esistenziali, creativi), e ciò che sembra “opera” è solo una traccia di questa relazione, un esito possibile di questo processo – neanche il più importante o il più pregnante, se è per questo.

Opere che sono fatte e recepite di sbieco, di striscio.

Non è un problema di percezione: il centro, semplicemente, non sta più lì: esse non sono più il fuoco.

Se sono “stati”, condizioni, atmosfere, allora i capolavori di oggi sono quelli che rimandano continuamente e ossessivamente ad altro da sé, al fuori: non certo in chiave di citazione, ma come costante INTERSEZIONE di piani. Un’opera d’arte riuscita, oggi, suggerisce: non dice apertamente. È un sistema che suggestiona. (La difficoltà principale risiede ovviamente nel riuscire a “dire” chiaramente in questa modalità laterale, marginale, liminale: nel rifiutarsi categoricamente di essere inutilmente oscuri, elitari, esoterici – mentre tutto congiura contro l’apertura. Nell’evitare l’esclusività come scorciatoia. Nell’essere luminosi e al tempo stesso magmatici.)

Opere che stanno, che stanno come, ma senza per questo adottare una “fissità” otto-novecentesca. (Opere che consistono forse di “sguardi-in-movimento”?) Opere che vivono una trasformazione organica: opere che vivono. E che attraversano coraggiosamente, elegantemente questa vita come un vuoto.

italiaevolution1

Interludio
Roma, Oratorio dei Filippini, 21 settembre 2016. La mia sconfinata ammirazione per Borromini risente in parte anche dell’oblìo e del degrado che avvolgono inspiegabilmente, in questi anni, le sue architetture.

La facciata di San Carlino è tutta nera, affumicata, stratificata da ere di smog e gas di scarico – così che quella protrusione morbida sulla linea retta della via ha assunto nel tempo un che di canceroso; la superficie della pietra organica è ormai oltre lo sporco.

Sugli scalini dell’Oratorio cartacce, giornali, lattine, scarti di vario genere e persino inspiegabili pezzi di legno umile sono infilati un po’ in tutti gli angoli.

La sala ovale è inaccessibile, perché pericolante – da una finestra interna che dà sulla prima rampa di scale si intravede un angolo malinconico e desolato di questo spazio abbagliante. La trascuratezza non diminuisce affatto la magnificenza di queste opere – nonostante le renda parzialmente inaccessibili e irraggiungibili – anzi, in un modo abbastanza strano le rende ancora più fulgide.

Nel momento cioè in cui questa architettura rischia penetrare, in maniera solo apparentemente definitiva, in una zona di marginalità urbana e culturale, si moltiplicano i messaggi metafisici che essa emana. Ogni reale valore più è sconsolatamente in vista più si nasconde – e diventa segreto.

Oggetti sfumati – attenzione sfocata – meravigliosa, e produttiva, sfocatura: più guardi e più le forme sono indistinte, indistinguibili – opere come nuvole in un cielo ventoso di fine estate – opere come l’ultimo giorno di estate – favorire l’imprevisto, l’inatteso (creando le condizioni giuste) – strategie oblique – il viaggio, il percorso, il processo: sganciarsi dalla routine e dalla prevedibilità – muoversi da un genere all’altro, attraversare e riattraversare i confini – abitare i confini – non più visitatori, ma cittadini temporanei di territori estranei – costruire familiarità – coltivare relazioni – costruire con il vento e il suono e la nebbia – muoversi con decisione verso un’area straniera, e poi ritornare indietro. A casa.

L’incertezza, lo sbandamento, il disorientamento – out of focus – il deragliamento, andare fuori centro e fuori sesto, ruotare o deviare, attestarsi sui margini, allargare il confine, abitare la sfocatura, concentrarsi sui dettagli e sulle sfocature, sbilanciarsi, sporgersi – il massimo di spontaneità e di autenticità può essere ottenuto per sottrazione o attraverso l’impiego del più grande artificio.

Sprofondare – sempre di più, nella sdefinizione di se stessi (e del proprio ambiente) – sfondare i limiti ha a che fare con l’esplorazione, certo, ma questa esplorazione non avviene in modo lineare – è un approfondimento, piuttosto, una dilatazione – e più tu diventi reale, più il resto perde i contorni, persone comprese. Per questo, non ha molto senso accanirsi nell’affermazione della propria identità (come spesso vedo fare attorno a me), nella sua ossessiva proiezione e riproposizione, perché più essa diventa monolitica, rigida, più si allontana dalla verità. Autoritario e autentico non vanno a braccetto. Se rimani aperto, se accetti il cambiamento, ci sono buone possibilità di incorporare questo cambiamento nello stile e nello sguardo – ma è un’operazione difficoltosa e critica perché richiede di permanere nell’instabilità, di vivere nell’ambivalenza e nell’inattualità, di scegliere deliberatamente incertezza e precarietà (e di non subirle come una condanna).

Energia residua: lo scarto prodotto da un impulso, da un progetto, da una relazione, da un’opera, da un nucleo creativo – e poi questo scarto serve a generare una nuova linea, una nuova idea da sviluppare e accrescere, in modo che tutto funzioni in maniera organica e per accumulazione. Strati su strati, frammenti accanto a frammenti – i materiali di scarto divengono materiali da costruzione, perché lo erano fin dall’inizio, e lo sono sempre stati.


Christian Caliandro | Italia Evolution. Crescere con la cultura