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A pesca nelle pozze più profonde (minimum fax) è l’ultimo libro di Paolo Cognetti, un saggio – molto narrativo – sulla scrittura di racconti. Arriva dopo (vado in ordine sparso) una bellissima guida letteraria di New York, due raccolte di racconti, un romanzo di racconti, un memoir sulla vita in montagna e un piccolo libro per bambini. Forse ho lasciato fuori qualcosa, ad ogni modo è chiaro che Paolo Cognetti sta costruendo il suo personale percorso letterario attraverso forme sì tradizionali, tuttavia non certo tra le più sponsorizzate dall’attuale sistema editoriale. Almeno questo è quello che si dice in giro a proposito della forma racconto.

Il libro, diviso in tre parti, si concentra soprattutto sulla scuola americana di storie brevi. Cognetti cerca di comprendere, insieme al lettore, cosa caratterizza il racconto, cosa può fare un racconto, in altri termini, rispetto soprattutto al romanzo. Smontando e rimontando le opere di Hemingway, Carver, Flannery O’Connor, Alice Munro, Grace Pailey, passando per Melville e Edgar Allan Poe, Cognetti ci accompagna in un breve viaggio letterario che ha il pregio di sottolineare almeno due aspetti importanti della scrittura (e della lettura) di racconti: il mistero (quello che non sappiamo e che non sapremo di un personaggio, come dicono Hemingway e soprattutto la O’Connor) e la prossimità con la narrazione orale. Lo stesso Cognetti, in quest’operazione di smontaggio, sembra riferire questo o quell’altro aneddoto appreso da vecchi amici di cui anche noi, in qualche modo, abbiamo sentito parlare.
Altro aspetto interessante, meno esplicito nel libro, è che questo riferire dà origine, a sua volta, a una moltiplicazione di storie, come in una piccola (e molto spesso involontaria) deflagrazione mitopoietica.

Se in un racconto il vero protagonista è dunque il non detto, quello che resta nascosto nell’acqua, sotto una roccia, come la trota in un fiume o la biografia di un personaggio secondo la regola dell’iceberg di Hemingway, in questo libro invece è proprio la voce di Paolo Cognetti la vera diva al centro del palcoscenico. Una voce amica, che racconta a volte leggera, altre decisamente appassionata, ma sempre alla giusta distanza dalla materia. Così è anche nelle Quattro storie di Sofia che concludono il libro, e che possiamo interpretare come una pratica conseguenza delle riflessioni contenute nelle pagine precedenti. Quattro storie con cui Cognetti ammette di aver voluto trattenere ancora un po’ con sé la protagonista di Sofia si veste sempre di nero dopo l’uscita di quel libro.

Sul racconto
Forse sulla forma racconto andrebbe fatta qualche riflessione in più (cosa che sta accadendo, ad esempio, su Cattedrale Magazine). A volte l’impressione è che proprio mentre è bistrattato, apparentemente costretto in una sorta di riserva indiana (certo più editoriale che propriamente letteraria), il racconto non si prenda tutta la libertà di sperimentare che caratterizza in genere una minoranza poco visibile, arroccandosi al contrario dietro due o tre certezze. In questo caso certezze che provengono soprattutto dai maestri americani. Se Cognetti dichiara apertamente di amare e raccogliere le influenze soprattutto in quel tipo di narrativa (e mi pare sia d’accordo con lui Francesca De Lena), credo che noi italiani dovremmo comunque interrogarci, più in generale, a partire anche dalla nostra tradizione. Anche quella più recente. Cosa esprimono, in termini di stile, di lingua e di conseguente visione del mondo autori come Tabucchi, Manganelli, Buzzati, Landolfi, Parise, senza dimenticare Achille Campanile o il Gianni Clerici di Zoo, per citarne alcuni? Autori molto diversi tra loro, che esprimono comunque, a parer mio, una complessità ulteriore rispetto agli autori americani (sugli italiani e sul non detto, sulle tecniche di omissione volontaria, io cliccherei qui).

Altrove
Continuare a guardare agli americani come unica stella polare in fatto di scrittura di racconti potrebbe dunque non essere l’unica soluzione. Probabile che qualcosa di nuovo stia accadendo, se proprio si vuol guardare all’estero, in paesi non ancora o non del tutto occidentalizzati. Per questo ho letto con curiosità i consigli di scrittura (vero e proprio format, a dire il vero piuttosto inflazionato, per ogni blog letterario che si rispetti) di alcuni giovani scrittori cileni.
Ancora più in generale, si potrebbe attingere anche fuori dal contesto strettamente letterario. Se, ad esempio, il romanzo contiene già in sé alcune sperimentazioni legate alle serie tv degli ultimi anni (moltiplicazione dei piani di lettura, accostamento di più livelli temporali), lo stesso potrebbe accadere con un racconto, in grado di accogliere anch’esso un livello di complessità e densità narrativa maggiore rispetto a quanto siamo abituati.

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Influenze
Ancora, quali altre forme d’arte possono rappresentare un’influenza cui attingere per il racconto? Lo stesso Cognetti, nel suo ultimo libro, spiega come dare profondità a un personaggio facendo ricorso al posizionamento delle tre luci in un primo piano cinematografico. Dunque il cinema ma, perché no, anche il videoclip, che da trent’anni è ormai una forma di espressione artistica con cui si entra in contatto quotidianamente: i video degli Alt-J (tipo questo che sembra raccontare le vicende di un San Sebastiano da corsa) non sono delle short story pressoché perfette?
Si potrebbe guardare anche a qualche buon trailer, anch’esso una forma d’arte con una sua dignità (o quantomeno una sua indipendenza), come nel caso delle opere di Mark Woollen. Come (e più di) un racconto, il trailer è obbligato a lasciar fuori dalla rappresentazione grossa parte della storia, così come è indissolubile il suo legame col ritmo, non solo per la colonna sonora quanto per il montaggio delle scene del film che deve promuovere.
Aggiungeteci il fatto che produrre un trailer significa «entrare nella stessa rappresentazione dei personaggi delle storie e in quella delle persone che hanno contribuito a realizzare il film e fare parte per un po’ di tempo del loro mondo», il che, per dirla ancora con Mark Woollen, «è divertente».
A pensarci bene, è quello che Paolo Cognetti spiega in A pesca nelle pozze più profonde, ma soprattutto è quello che è accaduto proprio a Paolo con la sua Sofia.