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Vita impistata, chista vita è impistata. E unnì sapiemmu nenti.

Bisognerà dire, prima o poi, e senza troppo rimandare, di questo Orazio Labbate e del suo romanzo d’esordio, Lo Scuru. Bisognerà dire, e si dirà meglio nel corso degli anni, perché il libro del ventinovenne siciliano è destinato a restare. Un ventinovenne che sta tra le pagine, però, come un mistico di sessantatré o sessantasei anni abita il suo eremo.

Nei momenti di più pio ottimismo, in fondo, penso che di belle scritture, in giro, ce n’è eccome; scritture limpide, eccentriche, lievi, accurate: per tutti i gusti. Ma la letteratura è un’altra cosa; e quella italiana un’altra ancora. E prima di tutto questo merito ha Lo Scuru, di ricordarci che leggere i nostri connazionali è ancora un’esperienza assurda, importante, e quando accade percepita come imprescindibile. Una considerazione, questa mia, che va oltre la fusione di italiano e siciliano che anima la magia nera del romanzo di Labbate.

Razziddu Buscemi sta morendo, al termine della sua vita da emigrato, a Milton, West Virginia. Da lì racconta appunto con questa lingua fusa e ciondolante la sua storia. Butera, Gela, la Sicilia superstiziosa e magica del Signore dei Puci, del Cristo, del Diavolo e dello Scuru. Il fetore di incenso e morte delle statue di legno e cartapesta di ogni Settimana Santa. Ho sentito di sicuro una fratellanza apotropaica col mio La Passione, ma c’è dell’altro.

La scrittura di Labbate è un muro rovinato. Vecchio, forse diroccato. Un italiano antico, che l’archeologo Labbate inchioda al termine e alla sintassi desueta. Ma senza specchiarsi in un lago che, peraltro, non c’è (più in là è in fumo il Mediterraneo soltanto). Su quel muro ci sono delle piccole crepe. Non le riempie di stucco, Labbate, non le aggiusta. Le riempie con il suo stile, suo e soltanto suo, per quanto debitore di chi ha già attraversato questa terra (il debito è omaggio, a volte un salvataggio dall’oblio: rileggeremo D’Arrigo grazie a Labbate).

E lo stile di Labbate è soprattutto questa lingua cruenta, persino straniera, una lingua a sé, a tratti indecifrabile, che si gusta come un anglofono gusterebbe il francese, che fa l’effetto della glossolalia del mistico al semplice credente (“La verità: urlata e litaniata”). E che poi di colpo splende, come quando racconta l’amore per Rosa, ad esempio.

“L’amore, nel chiaroscuro. Nel corso di quei secondi disse alla mòrti che poteva inventarsi un altro corpo dentro al quale suicidarsi […]. Più il ragazzo rimaneva nella polpa immortale di quei secondi, in compagnia della femmina, più quest’ultima penetrava nella sua dolcezza e occultava l’orrore che il passato infettava nel presente.”

Sì, la Sicilia di Labbate è assoluta, è esistita, oscura, ed esiste ed esisterà sempre, ma non è questo il punto che mi lega al libro, il raccordo. La lingua, il linguaggio: la letteratura è soprattutto linguaggio, come ogni arte. Dietro Rapina a mano armata e ogni opera di Stanley Kubrick c’è un insegnamento profondo, almeno per chi vuol vedere, su cos’è il cinema, e dietro l’ascesa del magnate Hearst di Quarto potere Orson Welles architetta un ambiziosissimo manifesto sulla settima arte.

Dietro l’oscurità de Lo Scuru Labbate ci ricorda che la letteratura può dimenticarsi di trama, psicologia, struttura, storytelling, per farsi ‘ntrama (uso adesso il mio dialetto per dire: viscera, budella), e per farlo non può che usare se stessa, i suoi strumenti. Labbate rende oggetti magici gli aggettivi e con la sintassi costruisce labirinti. A un certo punto, per quanto meridionale e dunque in grado di intendere il suo verbo, mi sono arreso alla lingua, mi sono arreso all’oscurità di quel procedere: ho assorbito la trama per tramite del linguaggio, ne sono stato assorbito, e non è stato più leggere, ma viaggiare. E come ogni viaggio ha fatto bene, e ha fatto male: alla fine ho saputo.