Canio Spinato, u diavelucchie, materano di nascita e milanesissimo d’adozione, ha una sola ossessione: far ridere. Far ridere per piacere, poiché al piacere è correlata l’illusione di «potersele fare tutte». Ma anche tutti: il piacere, come verbo e sostantivo, non conosce limiti di genere, in fondo. Canio è affetto da una sindrome piuttosto comune in quello che in La battuta perfetta (minimum fax) l’autore Carlo D’Amicis dipinge come il paese di Joker (in senso batmaniano, ovvio). Tutti lì a ridere e a sbracarsi, come dopo un lunghissimo inverno a scuola. E la scuola, se si parla di tv, è la Rai delle origini. Frigida nei suoi intenti pedagogici, accoglie Filippo Spinato, padre di Canio, negli anni del boom economico. Filippo che, per dirne una, compra casa da Andreotti, salvo poi scoprire che potrà prenderne possesso solo alla morte del Divo Giulio.
La battuta perfetta è un romanzo crudo. Si ride, eh. Però poi la narrazione scava, perché D’Amicis non racconta l’epoca berlusconiana per suscitare indignazione, ch’è un giochetto fin troppo facile di questi tempi. C’è un’indagine antropologica, forse storica, su un certo tipo di umanità. Certo è che ti ritrovi a pensare se non sei diventato un po’ di plastica anche tu. Ecco, prendetelo come un romanzo storico, se preferite, se riuscite a mandar giù le continue citazioni dei programmi tv con cui siete cresciuti e le apparizioni di personaggi a voi prossimi (sì che lo sono!). Con tutta probabilità, il senso di fastidio che proverete in fondo allo stomaco potrebbe avere a che fare con quel liquido verde nell’illustrazione di copertina di Alessandro Gottardo.
[Ora. L’argomento rimanda alla cronaca di questi giorni. Qualcuno potrebbe averne avuto abbastanza, me ne rendo conto. Io stesso non avrei mai letto questo romanzo se non avessi assistito alla presentazione fatta dall’autore nella libreria più lunga di Puglia proprio quest’estate. Perciò, fidatevi, read the rest of this entry e sentite cosa mi ha raccontato D’Amicis.]

Partiamo dalla copertina. C’è un telespettatore con un naso da pagliaccio. Dalla tv che sta guardando, oltre a fuoriuscire un liquido verdastro, arriva un fascio di luce simile a un occhio di bue. Direi che hai raccontato la storia degli ultimi sessant’anni di un paese in cui, in effetti, l’aria che tira è quella di una democrazia televisiva. In tv si può essere tutti uguali, o meglio, vicini (di casa), a patto di essere illuminati da quell’occhio di bue. E per ricevere quella luce, bisogna piacere.
Il motore del romanzo è proprio questo bisogno di piacere. La televisione, ovviamente, lo raccoglie, lo dilata, lo provoca e lo testimonia: ma se ne serve, e — in un certo senso — viene dopo. All’origine dell’egemonia televisiva nel nostro Paese sta secondo me un particolare tipo di narcisismo che deriva da un problema identitario. In Italia, dagli anni Sessanta ad oggi, si è verificato un progressivo smottamento dell’io. Siamo cattolici ma non praticanti, familisti ma inclini ai divorzi e agli adulteri, democratici ma sedotti dai poteri forti. Tutto è “a modo nostro”: con la conseguenza che ogni cosa, dalle regole alla percezione di noi stessi, diventa incerto, precario, sfuggente anche a noi stessi. La conseguenza è che abbiamo costantemente necessità di “ridefinirci”. E non avendo dentro di noi le categorie per farlo, cerchiamo nel consenso degli altri una legittimazione. Come dici giustamente tu, questo processo è paradossalmente democratico, o quanto meno reciproco: perché tutti vi contribuiscono, attraverso canoni che si muovono ambiguamente tra la trasgressione (per avere l’attenzione di chi ci circonda) e gli stereotipi più retrivi (per non rischiare troppo lo stigma): e infatti, è precisamente nel solco di questa ambiguità che procede da anni la tv.

Tento una sintesi. Dopo decenni di tv pedagogicamente impegnata, tutta presa dall’alfabetizzazione del popolo italiano (rappresentata da Filippo Spinato, padre di Canio), è come se con l’arrivo della tv commerciale fosse scoppiata una festa di fine anno, in cui tutti hanno semplicemente voglia di divertirsi, sbracarsi – e questo è Canio u diavelucchie. La scena in cui c’è la rivolta della gente per la chiusura delle frequenze del Biscione la dice lunga. Canio arriva a tirare un calcio a suo padre, grigio burocrate della Rai.
C’è una canzone di Giorgio Gaber che dice: “Non temo Berlusconi in sé, ma il Berlusconi che c’è in me”… Nel rapporto tra Filippo Spinato e suo figlio Canio il romanzo esprime certamente una contrapposizione tra il frigido rigore della Tv pedagogica (e della prima repubblica) e l’euforia post craxiana delle reti commerciali. Ma non bisogna radicalizzare questa contrapposizione, farne una questione di schieramenti. Perché seppure in effetti appare come uno spartiacque che divide l’Italia e la nostra storia recente in due, questa contrapposizione tra impegno e voglia di sbracarsi (come giustamente la definisci tu) appartiene a ciascuno di noi e ci confonde (in tutti i sensi). Perché la radice del berlusconismo (ovvero il bisogno un po’ infantile di piacere, e perfino di essere amati, da tutti e ad ogni costo) è scritta nel nostro Dna come una debolezza originaria. Ecco, diciamo che alcuni si sono scoperti vaccinati e altri no, ma in ciascuno di noi esiste, secondo me, sia il virus di Spinato padre che quello di Spinato figlio.

La scena gemella è quella in cui è Silvio, figlio di Canio, a picchiare suo padre durante una manifestazione del Blocco Studentesco. Però di Silvio non sappiamo molto: è affascinato dall’estrema destra di questi ultimi anni, veste di nero e non ha idoli. Durante una presentazione hai spiegato che sul ragazzo, dunque sul futuro, non hai voluto esprimerti.
Non sapevo come farlo. E questo non saperlo, mi è parso un’indicazione da raccogliere, da affidare narrativamente a un personaggio buio, insondabile, informe.  I ragazzi di oggi si ritrovano sulle spalle sia il modello borghese e perbenista degli anni Sessanta e Settanta che quello frivolo e amorale degli ultimi decenni: a cosa reagiranno, e come, non si sa. Anche perché, in fondo, l’evoluzione è stata rapida e, come dicevo prima, piena di contaminazioni. Perciò mi sembrava giusto lasciare Silvio Spinato, al di là dei suoi comportamenti ringhiosi, nell’indeterminatezza. Per ora sa esprimere soltanto rancore verso chi gli ha costruito intorno questo mondo. E, più sottotraccia, una paura che si esprime nel fascino che prova verso il colore nero, collasso di un mondo dove tutto sembra essere saturo, impossibile da riscrivere.

Il romanzo è appunto anche la storia di due padri, la storia di un picaro contemporaneo, e pure un saggio, se vogliamo, sul “piacere di piacere”. Da lettore ti sono grato di una cosa: hai trattato un periodo storico di cui si discute spesso sull’onda di una indignazione piuttosto facile inquadrandolo invece in una prospettiva storica. Qui non c’è giudizio. Al centro ci sono degli uomini con delle pulsioni che riguardano tutti noi.
Mi fa molto piacere quello che dici, perché effettivamente non m’interessava né l’indignazione né, tantomeno, la satira e il grottesco. Il mio intento era quello di riportare queste due epoche (quella pedagogica e quella berlusconiana) a una matrice umana, per provare a raccontare quanto, intimamente, entrambi ci riguardino come fattori naturali, ancora prima che storici. Il Berlusconi che, nell’ultima scena del romanzo, si ritrova come un qualunque vecchio impaurito dalla solitudine e dalla morte, e tuttavia ancora affamato d’amore e di passione, non vuole assolutamente essere uno sberleffo al potere, o un denudamento del re, ma l’evocazione (dolente e tragica nella sua apparente ironia), di una fragilità, e quindi di un’umanità, che Berlusconi ha sempre cercato di nascondere dietro lifting e ceroni, ma che, sotto la vernice, riguarda inevitabilmente anche lui. Così come, di contro, riguarda anche noi (seppure, speriamo in dosi omeopatiche) la sua ossessione di allontanare il declino e negare la morte. Insomma, almeno per me che l’ho scritto, in questo romanzo apparentemente impietoso e crudele, c’è molta pietas, e molta tenerezza verso ogni forma di debolezza umana (compreso quel particolare tipo di debolezza che è l’ostentazione a tutti i costi della forza).

Il romanzo si svolge tra Matera, Roma e Milano. Da un punto di vista geografico, rimane una certa verticalità (gerarchia), in opposizione all’orizzontalità dei rapporti stretti dal protagonista e imposti dalla tv contemporanea. Matera è il buco di culo del mondo da cui tutto ha origine; Roma è la capitale eternamente incapace di esserlo fino in fondo; e Milano è l’unico luogo in cui Canio Spinato – e l’Italia – possono finalmente ambire a realizzarsi.
Sì, è così. E infatti alla fine, quando Canio comincia a percepire che tutto è compiuto, anche solo per un giorno vuole tornare a Matera con il padre, il figlio, e con quella specie di spirito santo che è Graziella Dell’Edera, la compagna di scuola ritrovata anni dopo, da cui discende una grazia — forse è troppo? Diciamo allora una graziella… —  comunque inedita, salvifica, sebbene forse ormai fuori tempo. Tornano a Matera da perdenti, poveri cristi che hanno creduto di salvare il mondo e che il mondo ha inchiodato alla croce del loro sacrificio. Ma io in quel ritorno li vedo grandi, epici nella loro sconfitta. E a questa epicità serviva il Sud, luogo da cui sempre si parte e sempre si ritorna, laddove il resto del mondo (Roma e Milano comprese) semplicemente si attraversa.

Canio Spinato è ossessionato dal far ridere. In quello che è un dialogo mancato con suo padre prima e poi con suo figlio, Canio utilizza diversi registri, soprattutto a livello umoristico. Dal classico pecoreccio fino al sarcasmo più audace. Ma quando si tratta di “piacere”, appunto, non va troppo per il sottile.
Questo romanzo nasce anche dalla venerazione che nutro nei confronti del comico. C’è una contraddizione, nel talento di far ridere gli altri, che mi affascina e mi turba. Il riso è reazionario, come scriveva Pasolini, o progressista? E’ un dono o una condanna? Chi fa ridere è un mago, un santo, un semidio, capace di realizzare un mistero insondabile e meraviglioso com’è quello del comico, ma è anche un cretino, un buffone, il giullare che viene preso a calci dal re. E’ un seduttore, ma è anche un solitario, un uomo triste, in quanto la fase successiva a quel miracolo collettivo che è il ridere insieme non può essere che un senso di separazione, di isolamento dal resto del mondo. Insomma, è una forma di piacere complessa e universale. Canio se ne serve come l’unico strumento praticabile per essere accettato: è attraverso una risata che si è sentito amato per la prima volta, e il suono crepitante di quell’allegria continuerà a cercarlo ossessivamente per tutta la vita.

Ti lascio così: la scena in cui Canio obbliga Madre Natura (quella di Ciao Darwin) a fargli un pompino è agghiacciante.
Bene! Agghiacciante è un bellissimo complimento per un romanzo. La mia paura è che qualcuno, un giorno, possa dirmi di aver trovato un mio libro carino. Ecco, a quel punto sarà meglio lasciar perdere…

[L’intervista è disponibile anche su inutile. Poi, una curiosità. Nel corso del romanzo, Canio arriverà addirittura a interpretare lo Scrondo. Le cui origini Stefano Disegni mi aveva raccontato qui.]