«Luna di provincia, croce
e salvezza
che fai di me un damerino
indicami la via
per uscir dal camerino.»
N. Desideri, I diari

L’altro giorno ho fatto una presentazione del mio secondo libro, La Passione, e temo di aver dimenticato di scriverlo in giro per Internet (a parte Facebook, certo, che è la nuova televisione). Un resoconto molto illuminante della presentazione è qui. Qua invece voglio scrivere delle cose che in genere non dico, non so per quale motivo, quando presento questo mio secondo figlio, che è femmina, e che è certamente fratello del primo – poiché il primo si concludeva su una tavola da surf che doveva portare i suoi personaggi in una dimensione parallela in cui il dolore è uguale a quello che si prova qui, però colorato con colori diversi che un po’ lo deformano. E invece ne La Passione si va per il mare, ma il mare di una cittadina di provincia reale, con personaggi reali. Credo che ne La Passione ci sia qualcuno che è caduto da quella tavola da surf ed è rimasto sulla terra ferma, pronto a partire per questa destinazione ignota (ai più) e reale; e che poi ha scoperto che lo spirito con cui si affronta una campagna elettorale (in provincia, ma non solo) è lo stesso con cui Ismaele prende il mare per combattere o dimenticare il suo umor (humour?) nero. Su Melville tornerò. Voglio prima parlare del narratore de La Passione, che è una cosa che non faccio mai. Ecco, lui è rimasto tagliato fuori da qualcosa – sì, forse proprio dal mio primo libro. Un viandante disperato, per cui l’errare per quel mare in illusoria e perenne bonaccia che è la sua comunità diventa il diabolico perseverare cui tuttavia non ci si può sottrarre. Bighellonare, sì, con lo spirito d’abitudine del viaggiatore, che non è proprio come esser turisti né esploratori (se non dello spirito degli altri). Bighellonare, trovare illudendosi d’aver cercato o forse il contrario, in ogni caso una cosa fatta con disperazione tiepida, un po’ disforica, certamente compiuta nonostante. Questo narratore prende il mare in bonaccia della propria comunità e scopre l’abisso che è l’Apocalisse della campagna elettorale, di ogni campagna elettorale. Non può farne a meno. Scoprirà forse la differenza, alla fine del suo viaggio, tra l’abitare in un posto e abitare un posto. Io spero che lo scoprano i lettori, questo spero, mi basta, m’avanza e perciò posso restituirlo, spiegandolo in almeno tre lingue inventate.
Be’, a dirla tutta ero convinto di aver scritto una tragedia, lo ammetto. Ma mi son riletto. Lo faccio con dolore (vero, presunto o verosimile) e in questo caso ho realizzato che permane in me qualcosa della farsa. Non solo per via del carrozzone di politici – veri, locali, regionali, nazionali – che anima le mie pagine, ma dev’esserci proprio qualcosa che mi caratterizza in questo senso. Ribaltare ogni caduta per farne un salto e poi ancora caduta con buccia di banana annessa. Certo la farsa ammazza il volo. Salto o caduta, nient’altro. Ma non è importante. E comunque un po’ di tragedia c’è. Nella simbologia religiosa con cui i politici si prendono le misure e nel modo in cui il sarto le prende per il catafalco del dopoduello (se non c’è il ballottaggio, non puoi chiamarle elezioni); nelle lunghe messe cantate dei comizi e nella solitudine che torna a fine campagna elettorale in una città dimenticata tra due mari nella regione più lunga e bifida che esista; infine, nella violenza. Tutti noi abbiamo e amiamo vite violente e teniamo a tenerle in ordine come stanzette preadolescenziali. Per amare agguantiamo. Non perdiamoci: anche la città, per amarla noi dobbiamo gettarle addosso l’ombra lunga del nostro potere. In questo siamo reietti e nessuno tornerà salvo dall’estate. Nessuno ci salverà, nessun senatore o consigliere comunale, nessun candido candidato delle primarie (son tutti candidi e belli, gli eroi delle primarie).
Quanto ai politici. Ci sono tutti i nomi veri e uno sguardo aperto un po’ stucchevole ma sincero da parte del narratore, verso questi eroi moderni della tv e dei comizi. Dico eroi perché c’è un rispetto letterario, questo sì, nei confronti di ognuno di loro; ma non sono eroi letterari, perché non c’era tempo né disponibilità da parte mia a farne qualcosa del genere. Proprio l’altro giorno si è posto il quesito: cos’è letterario e cos’è non letterario? Ho definitivamente realizzato che ogni cosa è non letteraria. Del resto, cosa potrebbe esserlo, al contrario? L’intera esperienza umana, che accade fuori orario e fuori posto? Forse. Accadiamo quando non dovremmo o non accadiamo quando dovremmo e se questa fosse una formula, la formula della letterarietà dell’umana esperienza (già me la vedo sui testi d’algebra), direi che dopo l’uguale andrebbe il niente ma non lo zero (così faccio inversione a U davanti a un posto di blocco di carabinieri assonnati e sono di nuovo alla tavola da surf).
A questo niente ho provato a rispondere con la storia, che non ha bisogno di maiuscole e non ha nulla di trionfale se non qualche arco di schiena di donna incinta qui e là (le donne: quelle che ti sorridono mentre mangiano, ad esempio), con la storia di questo mio secondo libro che è storia per il semplice fatto di non voler essere per nulla cronaca (cronica cronaca!, la dittatura dei giorni nostri), visto che lo era già, assurda, assoluta e insoluta, quella del blog da cui è tratto. La vacuità dell’esperienza umana: allungala, diluiscila con un po’ di sale marino nella storia, fa’ che sia storia, e saremo tutti un po’ meno inutili e un po’ meno niente: meno che niente, in questo caso, per dire qualcosa di più.
Sto chiaramente andando a parare [err-ab(b)ondando] dalle parti della Bibbia. Lo faccio come non credente ma da credulone, nel senso che credo a tutto e perciò non posso non credere alla Bibbia. Ed è molto divertente andarmene in giro per città di provincia come la mia (come Milano, per dirne una) a leggere passi de La Passione in cui si cita Giobbe da Moby Dick – e dunque dalla Bibbia – e non esser smascherato. Così come passano inosservati interi versi tratti da canzoni country (i Wilco su tutti) o da alcuni testi di Richard Brautigan, e questi sono i segreti che avrei portato nel mio catafalco (se non li avessi svelati ora); insieme al narratore, anche lui un segreto mal custodito; insieme alla Balena Bianca che non è solo un capodoglio irrisolto – dio o demonio – ma anche il più grande partito politico italiano che sta sempre lì lì per tornare e poi non torna mai (o forse è già tornato o non è mai nato, questo dipende dalla vostra confessione religiosa, politica o calcistica).
Be’, per concludere. Per concludere ci vuol sempre un po’ di sacra e santa verità. Mi piacciono i nomi e le parole che iniziano per v. Non a caso ci ho messo un po’ di violenza, in questo libro e in questo pezzo. Ci ho messo la v perché quando ho scritto La Passione non avevo la e – il tasto con la e (son sincero, alcuni miei scritti sparsi per la rete lo dimostrano). L’ho scritto in una settimana, sono serio, dopo averlo sudato nel mese più potente e solitario che ci sia da queste parti. Una settimana dopo aver conosciuto persone straordinarie e prima di conoscerne altre. Dopo averne perdute di peggiori e, purtroppo, di migliori. Ho confuso e sono stato confuso. Ma dicevo d’averlo scritto senza la e che è l’iniziale di Elia, servo cacciatore che muore e non muore nella leggenda che dà il via alla vita della mia città nonché profeta scannatore (materiale) di mezzo migliaio di idolatri di Baal sul monte Carmelo, scannando infine (lui sì) la volontà di Achab (e siamo sempre lì). Elia maestro di Eliseo, il quale vide ascendere il Profeta e fu eroe, infine, unico e incontrastato, de La Passione, unico sopravvissuto al terremoto delle elezioni, forse per raccontarlo un po’ come accadde a Giobbe ma senza i dolori (veri, presunti o verosimili, certamente materiali) di Giobbe-cranio-fracassato.
Vado ancora con un po’ di verità. Questo libro è scritto in una lingua inventata. Ho messo in mezzo la politica e magari uno pensa a un’inchiesta. No. Tutt’al più un’inchiesta linguistica, dato che solo questa lingua che cucina insieme altre lingue tutte vere e inventate e però le dimentica in forno, ecco, questa lingua soltanto poteva raccontare questa comunità. A voi trovare la vostra, di lingua, la lingua che è tribunale e cura a un tempo, e se sarà cura, vostra cura, avrete dato una griglia (una formula?) all’oralità e al pensiero in cui siete immersi. Spiace solo che Tommaso Pincio e Giuseppe Genna non lo sappiano. Ma è accaduto comunque, anche se non so a che ora.
Dalla verità ai saluti, passaggio e passeggio obbligato (e da ora non più segreto) per la sincerità. Il titolo del libro non deve nulla a Mel Gibson (semmai ruberei qualche ballerina a John Turturro). Gibson ha un problema col sangue di Cristo, io da piccolo ne avevo invece uno con la rappresentazione in cartapesta delle ferite di Cristo. Dunque io ho le statue, la violenza, un gran rispetto per la paura e per il dubbio; lui solo una fissazione per il gesto cruento (che non sempre è violenza). Ma non c’entrano neppure le statue, la Via Crucis, in fondo non c’entra neppure Mel Gibson. C’entra soprattutto il vecchio e un po’ fuori dal tempo segretario di un minuscolo partito di provincia che, di fronte alle critiche per ogni mossa sbagliata (politica, s’intende) replicava ai suoi militanti (militante, da militare): «E che volete farci, io so’ passionale!». Inspiegabile e curioso. Forse illuminante. Un po’ come il motivo per cui la Bibbia, a differenza degli altri libri qui citati, non va mai in corsivo.