C’è una luce, una luce che accade prima. Si compone di piccoli dettagli, bagliori a volte infimi, altre solo inspiegabili, in ogni caso accidentali. Allo stesso modo mi chiedo: come sono arrivato al libro di Emanuele? Come lui è arrivato a me? Il meccanismo è indifferente all’umana natura ed è allora forse spiegabile coi percorsi in genere battuti dalla grazia? Non ha importanza. C’è una luce che accade prima, o forse è immobile e andrebbe dunque detto: una luce che sta prima. Come si sta prima di nascere, come siamo noi prima che accada la nostra storia. Quando non eravamo neppure embrione ma cosmo, universo potenziale. Un intero universo potenziale. Così questo libro sta prima delle letteratura stessa, prima dei libri. Da lì mi ha colpito e da lì mi ha riguardato. Mesi di letture ignobili che nulla aggiungevano alla porcheria della vita come già la conoscevo sono stati spazzati via in una notte di lavoro e in un mattino di prima luce autunnale.
C’è una luce, questa luce prima, che avvolge le vite di tutti ed Emanuele ce la porta, nudo, senza vergogna d’esser nudo. Forse non aveva scelta. Gli ho scritto per dirglielo, per dirgli che sono orgoglioso di lui che ha fatto questo libro. Fare è il verbo giusto: lo ha scolpito, immagino che l’abbia scolpito sulla pietra del suo dolore che qui né altrove si può dire, credo che lo abbia lavorato come il falegname lavora su un tavolo o su una sedia. Cosa ne sappiamo noi di quella fatica? E voi cosa ne sapete, della fatica di Emanuele? Lui mi ha risposto che non immagino quanto gli abbia fatto bene il mio scrivergli. Al contrario, lo immagino, lo so, come può immaginarlo e può saperlo, così m’illudo, ogni essere umano messo nudo di fronte a quella che sa essere l’unica certezza, a volte: che sei da solo con quello che sai fare. Se hai la fortuna d’incontrarti almeno una volta nella vita, sarai solo con quello che sai fare, che hai imparato a fare, quello che di te hai coltivato. E quello porterai in giro, dopo l’adolescenza – che è il cominciare a riconoscere l’ingiustizia attorno – in quella che è l’età adulta e l’età adulta è: fare i conti con le conseguenze di quello che hai fatto e di quello che non hai fatto. Fare i conti con la consapevolezza che l’ingiustizia vive anche in te.
C’è questa luce che tutti avvolge almeno una volta nella vita. Causa e conseguenza di questa luce è il buio. Sto parlando di gioia e lutto, quella luce è gioia e lutto insieme e tu li porti con te come un’invisibile divisa che ti divide, appunto, tra gioia e lutto; ma se sei uomo è questo che devi fare, accoglierli insieme, non nasconderti: nel fiume o nel mare getta la maschera. Che sia acqua, comunque: e nudo sarai sempre. Così va affrontato il mondo. Siamo di passaggio e lascia almeno che questo passaggio non sia attrito, non generi solo scintille e poi fumo a contatto col passaggio degli altri. Non è un discorso tecnico, non c’è discorso tecnico che tenga. A Emanuele ho raccontato d’averlo letto sia come uomo che come persona che si prova a scrivere, a trovare la propria strada nel teatro – quotidiano – della parola; ma è l’uomo che ha colto, che è stato colto in flagrante. Non è il lettore che deve cogliere, in questa luce: è la luce che individua il lettore. Ma io non andrò a dire a nessuno che non bisogna nascondersi, lo giuro.
A Emanuele voglio dire ancora che mi ha mosso, mi ha mosso con lui con una mano invisibile che si è addentrata nel mio corpo. Come accade per certi presagi che raccontano già la fine mentre solo la intravedi. Non ho avuto quel suo tipo di lutto ma perdite: perdite sì, come accade a tutti. Nell’imbarazzo e nella disperazione della nostalgia e dell’assenza che riscontriamo nelle piccole cose, nei dettagli (fare una lavatrice senza di lei, dar da mangiare ai gatti, senza di lei) stiamo tutti. Nell’infinitamente grande e nell’infinitamente minuscolo insieme perdiamo tutto, sono maglie larghe e strette insieme quelle attraverso cui tutto si perde. La bocca del leone è spalancata, poi è chiusa, cosa trarremo in salvo da essa? Nessuno lo sa. Nella dolcezza spregiudicata delle pagine di Emanuele e nella loro violenza improvvisa mi sono ritrovato come in una vecchia canzone di Capossela. In questo scarto tra tenerezza e volgarità, in cui metto anche l’incapacità di progettare, andare avanti come – sembrerebbe – tutti gli altri esseri umani sanno fare: in tutto questo Emanuele mi ha fatto presente a me stesso. Non ho potuto sfuggirmi, leggendolo. Un’espressione che rubo adesso a qualcuno che ha già scritto di questo libro, e che pure ho rubato anni addietro a un mio parente. C’era mio nonno sul letto, in ospedale. A tratti sembrava ancora vivo e nudo – me lo ricordo nudo e magro, avvizzito, sotto le lenzuola – e così quel parente disse: “È presente a se stesso”, per dire che era vivo, e così vivo mi ha reso il libro di Emanuele, devo supporre? Mi viene in mente la vergogna dei corpi martoriati dalla morte prima della morte, dalla tecnica cui dobbiamo sottoporre la nostra vita perché si allunghi; mi viene in mente la vergogna che è sempre il mio corpo nudo e strettamente sottoposto alla solitudine; questa nostra nuova solitudine mitigata ancora dalla tecnica (la Rete, di cui pure Emanuele parla dal chiuso di una stanza in cui, alla fine, c’è solo lui); noi non facciamo che affezionarci a un passaggio, il nostro e quello altrui, noi, come specie, siamo accidente che diventa incidente nell’incontro tra di noi; noi che come specie estinguibile facciamo amore di una cosa che in genere si chiama biologia.
C’è una luce, allora, una luce prima che Emanuele ha portato come si porta il fuoco della conoscenza e della discendenza (che in questo libro è spezzata), e questa luce è un canto, una preghiera; di questo ha avuto coraggio Emanuele, per aver detto: questa è la mia voce e se per voi è delirio da ubriaco io non posso farci nulla.
[Questo è un omaggio a La Luce prima, libro di Emanuele Tonon. Un omaggio, filtrato attraverso la visione (allucinata) del film The Tree of life di Terrence Malick (da cui è tratto il fotogramma all’inizio del pezzo). Come in ogni omaggio che si rispetti, le citazioni sono sottintese. Alcune di queste si trovano nei tag a questo post, come tracce per chi volesse approfondire. Non credo di dover dire altro; o forse solo che confermo che è impossibile scrivere una recensione di questo libro (ecco perché Antonio Moresco ha scritto una lettera, a Emanuele). E che è salvifico ritrovare i molti dubbi e le poche certezze su cui si sragiona da mesi, a volte in compagnia, fortunata, altre volte no, in un libro che ti è arrivato addosso quasi per caso. Ma non troppo.]
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