Troppa, troppa morte: le macchine si rompono, i corpi s’inceppano e le bocche ripetono: “Non io, non io, porca puttana!”. Voglio dire, io la morte di quel dittatore non la volevo vedere; e così quella del ragazzo — ma neppure la camionetta in fiamme (morte è pure quella); e allora, niente morte, per un po’, neppure vita — d’accordo, non sopravvalutiamoci! — ma almeno niente morte per la morte, l’oscura ed estrema pornografia, fino a notte fonda a dir della morte, mia, tua, di quell’altro, fanculo alla morte! Ripeto, giorno di maggio e mese mariano, la morte in vita è naturale se non troppo esibita; alla morte per la morte è come andare alla guerra per la guerra: uccidere per uccidere, senza alcun territorio da conquistare, l’assioma è: siamo tutti morti nell’89 per cui è inutile provarci; ma la vita è femmina: e pure una bella femmina (facciamo Dorian Gray, l’attrice, non il ritrattista disforico) — come fai a non provarci?
Ma ripeto: non siamo al mondo per sopravvalutarci. E tuttavia nemmeno per l’estrema pornografia, del resto anche nella pornografia c’è un tanto di smorto, se non morto e rimorto, territorio desessuato dell’angoscia, fino al ritorto e al rimorso; corpi attenzionati da quel trapano violento che è lo sguardo prima ancora che il cazzo (o la vagina: ci sono certe vagine-fiche piuttosto puntute, v’assicuro). Difatti non volevo vedere neppure quel video con la starlette fumosa. Siamo al mostro finale, la mostra di mere funzioni corporali: così è il morire, ma anche il riprodursi, così si decide che tutto può esser guardato: allora un giorno di questi vi faccio vedere come caco bene io.
Ah, quei giorni di vita in ospedale, invece, li ricordo bene! Sul lettino per l’ECG, tutto spuntato da pinzette fredde sul mio corpo caldo (ero vivo, per la miseria, se lo ero!), l’infermiera parlava dei suoi gatti, del marito, della figlia che assisteva inerme a sciagure altrui (la professoressa malata, la compagna di scuola orfana di padre da un giorno all’altro, e così via), fino a concludere e a concludermi: “Vedrà, non più d’un giorno passerà lei qui in ospedale, domani sarà a casa: i sani coi sani e i malati coi malati, devono stare”.
Così ho rispetto dei luoghi di non vita, o di morte-in-vita che pur preparano all’assenza: dico di ospedali, alle volte (così ricordo con sereno, dolore sereno le morti dei parenti anziani) e soprattutto i cimiteri. Al Sacrario Militare di Bari non m’hanno fatto entrare: ci riproverò. In generale, rispetto la morte quando ha in sé la preparazione all’assenza. Delle morti spettacolari dei nostri giorni (che durano un giorno e poi manco puoi andare al funerale), e così in genere del gesto estremo ed estemporaneo che è preludio di nulla, ecco: non me ne frega niente.
Per questo e non per altro faccio un regalo ai lettori di questo blog. In genere tocca a Natale, a Pasqua, ricorrenze simili, quand’è facile donare; questa volta voglio regalare un racconto che parla di vivi e che venga letto da vivi nel giorno dei morti. Dentro c’è un tizio che ha i capelli a forma di pinna e vive in un cimitero, frustrato da un’assenza (sua? o di chi altri?). Lui è lo Squalo ed è L’eroe del camposanto. Lo dedico ai san(t)i, ai morti e pure ai fantasmi, ho rispetto pure per loro, che hanno in fondo il solo difetto di essere un po’ più indecisi di me quando si tratta di capire dove stare.
Per ricevere il pezzo bisogna mandare un’email al solito indirizzo: b_nabbaloni@libero.it. La mail deve avere come oggetto: el dia de los vivos. Io poi vi mando il pezzo e voi potete fare come i giapponesi, scartando il regalo solo quando il donatore è andato via — andato, non morto, sia chiaro.