…in buona sostanza, ecco, in buona sostanza io credo che sia il tempo a fare le storie. Non è solo un fatto di distanza materiale, non parlo di tempo o distacco materiale — è anche possibile un distacco immediato, tutto mentale, che può essere misurato in anni luce, e che può tramutare in foto d’epoca anche un’istantanea — qui si parla di tempo in termini di respiro. Se respiri bene, se una storia ha il tempo di respirare, allora potrà farsi. Il tempo consegna le storie — se non al Mito, quantomeno all’orizzonte. Le storie che stanno all’orizzonte hanno un calore diverso, un po’ sfocato, rispetto alla cronica cronaca, per dire. Puoi interpretarle, hanno un margine d’ambiguità in cui ci si può perdere e immedesimare. Il filo dell’orizzonte è, spesso, il filo della memoria. Prendete il calcio. Non manca, quando si racconta il calcio, un certo spirito nostalgico, tutto sentimentale, che tende a sottolineare come il calcio moderno ammanchi di poesia. Ibrahimovic, Pirlo o anche il Totò Schillaci dell’Isola dei Famosi non ispirano la stessa poesia di un Mazzola, di un Riva o di un Maradona. Ma è solo questione di tempo: le biografie hanno bisogno di respiro. A nascere all’epoca di Napoleone, vi assicuro che avreste trovato i telegiornali abbastanza insopportabili come, ritengo, accadeva durante gli anni di Andreotti qui in Italia. Dunque è il tempo, la distanza (soprattutto mentale, ripeto), a fare le storie: vedrete come si parlerà di Antonio Cassano tra un secolo. Tra mille anni, cambiando ambito, si dirà di Johnny Cash che era uno pseudonimo, che sotto il suo nome si celava un oscuro collettivo di cantori, come accade oggi per Omero.
Allora io ho provato a raccontare Gigi Meroni in un racconto che è stato antologizzato — digitalmente — da Quintadicopertina, casa editrice genovese, nel suo Jukebooks 2011. L’ho sognato, più che raccontato. Gigi Meroni, numero sette del Torino degli anni ’60, morì a ventiquattro anni investito dall’auto di quello che sarebbe poi diventato il presidente dei Granata molti anni dopo. Era un inventore, Meroni, si disegnava gli abiti e faceva (pochi) gol assurdi. Dipingeva. I suoi quadri colpirono Guttuso. Una volta si fece notare in giro con una gallina al guinzaglio. Se la memoria non m’inganna, il suo Torino non batté mai la Juventus, in quegli anni. La domenica successiva alla morte di Gigi, il suo compagno di reparto e amico, l’argentino Nestor Combin, ne rifilò tre alla Vecchia Signora, che fu così abbattuta dalla rabbia e dalla commozione per la morte della farfalla granata. Quel giorno Combin giocò con trentanove di febbre. Non poteva mancare.
Ebbene, nel racconto ho sognato (e nel sogno ho raccontato) che Gigi Meroni era vivo. Nessun incidente. Il non-distacco della storia sbiadisce così la biografia. Meroni è un calciatore qualsiasi — finisce la carriera nel Milan. Poi, la solita trafila: diventa un personaggio pubblico a tutti gli effetti. La sua stravaganza lo avvantaggia: cinema, poi tv, tv trash — fino a sfiorare l’Isola dei Famosi. La storia diventa cronaca, ancora una volta cronica. A Meroni vivo toccano in sorte le stesse involontarie disavventure di tanti eroi mediatici di oggi. Così è andata nel primo sogno. Tant’è che poi nel racconto ho dovuto sognare ancora — ancora Meroni vivo, ma stavolta più discreto. Non posso dire altro, il racconto si chiama La gallina al guinzaglio e sarà in vendita a breve sul sito di Quintadicopertina. Tra qualche riga dirò di più. Adesso andiamo però con l’incipit, almeno quello è gratuito:

Torno alla notte per sbaglio: come in attesa di risarcimento. E sogno solo per sbaglio, sì, sogno quando non dovrei, quando dormo male; tanto meno intenso è il sonno tanto più impresso nella sinistra memoria mattutina risulterà quanto ho visto e ascoltato con gli occhi chiusi. Per dirne una: qualche notte fa ho sognato che Gigi Meroni era vivo. Non c’era stato nessun incidente, nel ’67, o almeno credo, perché i sogni non è che stiano lì a dar conto di antefatti o spiegazioni. Insomma, Gigi Meroni, il numero sette del Torino degli anni ’60, il quinto Beatle, il fantasista-pittore, si apprestava ad attraversare quarant’anni di storia d’Italia.

Adesso però dirò di un altro sogno. Fatto l’altra mattina, poco prima di svegliarmi, uno di quelli che Tim Burton, in Big Fish, definisce sogni portentosi. Quelli così forti – e aggiungo, così vicini al risveglio – che poi si realizzano davvero. La linea di confine tra sogno e risveglio nel mio caso era il freddo del muro accanto al mio letto. Mi sono svegliato accarezzando il muro. Avevo sognato muri digitali. Proprio così: le immagini che di solito scorrono sul monitor del mio pc o in tv — dunque, video, pagine Internet, testi, servizi giornalistici – scorrevano sui muri della mia casa. Posso dire con certezza che la mia casa era fatta di muri-schermi. Muri digitali, che si accendevano e spegnevano e cambiavano canale — o pagina, direi — con il tocco di un dito. Un giorno le nostre case saranno così, ne sono certo, perché ho fatto un sogno portentoso. Leggeremo nuove storie — le vedremo — mentre facciamo colazione, al mattino, e quelle scorreranno sul muro. Fissare il muro per ore non sarà sintomo di una certa solitudine — al massimo, di quella nuova solitudine da individui immersi in un immaginario infinito e costante di cui si è un po’ vittime da trent’anni a questa parte (non è vero: lo siamo da sempre).
Credo di aver fatto questo sogno in seguito ad alcune letture sulla morte di Steve Jobs. La morte del CEO Apple mi ha fatto sentire di colpo un conservatore retrogrado, così retrogrado che ho fatto il giro e mi sono ritrovato ancora più a sinistra — di nuovo con Richard Stallman, per dire — ma non è questo il punto. In rete gira una simpatica vignetta in cui c’è San Pietro alle porte del Paradiso che presenta Steve Jobs a Mosè. E consiglia a quest’ultimo di consegnare le sue Tavole al numero uno di Apple, perché le ammoderni — quantomeno nella forma. Ecco, io credo che la storia dell’uomo vada in questa direzione: su ogni superficie piana finiranno pezzi del nostro immaginario. Internet o quel che volete: abbasserete la tavoletta del cesso e ci troverete una storia, un brandello di racconto del vostro immaginario, una canzone di Bob Dylan o l’ultimo video di Fulvio Abbate.
Quella di Steve Jobs pare fosse la filosofia — o patologia, secondo alcuni — del millimetro. Curare ogni millimetro di forma perché si possa dipanare al meglio la tela del contenuto, fino a farsi liquida e a sommergerci. Funzionalità, si chiama. Allora io penso che il futuro sia: riempire ogni millimetro dello spazio abitabile con frazioni-metonimie dell’immaginario in cui nuotiamo ogni giorno. La maggior parte della gente che conosco vive immersa nell’immaginario che si è costruita a suon di film, canzoni, libri, ben più che nella realtà. Vive in un sogno. Facebook è la forma di narrazione — peraltro interpretabile, ad alto tasso d’interazione — che molti di noi prediligono. Non so se questa è una cosa buona o cattiva: ma funziona così. E allora ogni millimetro del nostro spazio sarà abitato dal nostro immaginario né più né meno di quanto lo abitiamo noi. Quando sento parlare alcuni editori — oh, che noia… “In Italia non si vendono più libri!”, ecco, sì, avete ragione: non so se la gente ha smesso di comprare libri, non so se è vero, ma di certo nessuno si stancherà mai di una storia, di un racconto – e per racconto intendo anche un video musicale o, ripeto, quel che accade su un social network. Molti editori, soprattutto in Italia, non si sono ancora chiesti come veicolare il racconto su superfici — e forme, dunque — nuove. Non si sono chiesti quanto la forma può influenzare il contenuto, quanto possa farlo in maniera non furbesca, opprimente, ma quanto, al contrario possa liberare nuovi tipi di contenuti. Io credo che tornerà la poesia: breve, intensa, ma anche brutta, poco curata: certo molto più adatta a rappresentarci in uno spazio-tempo ristretto. Del resto io non ho ambizioni di scrivere romanzi da ottocento pagine. Non m’interessa, non ne sono capace. Per me scrivere può essere anche la parola giusta infilata nel punto giusto in uno spazio bianco ristretto. E inviata ai cellulari di mezzo mondo. Il mio tumblr, su cui infilo pezzi brevissimi, mi permette di raggiungere, potenzialmente, molti più lettori di quanto possa fare un libro di carta pubblicato con una minuscola casa editrice. Perché un musicista può pubblicare un pezzo su iTunes e beccarsi, non so, anche solo cinque centesimi per download, e io non posso fare lo stesso con un racconto breve? Ecco, Se avete cliccato sul link di Quintadicopertina, prima, in cui si spiega come funziona Jukebooks, sapete adesso che quello è un esperimento, e quelli finora esposti, con un po’ di confusione, sono i motivi per cui vi ho aderito.
Non sto dicendo che i libri di carta spariranno (e neppure gli editori — avremo al contrario ancora più bisogno di editori validi). Potrebbero diventare pezzi unici, o comunque rari, anche più curati nell’aspetto — dunque, più leggibili, perché anche il cartaceo ha problemi di leggibilità — e dunque anche più rispettabili. Sto dicendo che potrebbero sparire i romanzi da mille pagine (ne resterebbero comunque un bel po’ di già pubblicati, e molti di qualità — c’è tutta la storia della letteratura cui attingere, per la miseria!). Sto dicendo che il prossimo mio potrebbe anche essere l’ultimo libro di carta (in cui indagherò non la filosofia del millimetro, ma la storia, del millimetro — ma questa, appunto, è un’altra storia). Sto dicendo che non voglio scrivere come nel ‘900, prigioniero di forme e sostanze del ‘900 — e neppure degli anni zero — e vorrei farlo per un pubblico che non sia, anch’esso, prigioniero del ‘900.

[Sull’argomento, consiglio questo articolo di Punto Informatico. Mentre il Jukebooks 2011 verrà presentato domani (13 ottobre) a Bologna – evento Facebook.]