Io e il mio doppio eravamo, in quell’età, preda di astratti bagliori. Tutto luccicava nei nostri occhi accecandoci, tutto era raggiungibile da lontano, alla nostra portata proprio perché inafferrabile. Tutto astratto, abbarbicato all’infinito e ci faceva sognatori, nella migliore delle ipotesi – e nella peggiore, invece: astratti incubatori d’incubi; in ogni caso poche volte apparivamo eroici, e sempre, cioè mai, vivi; ed erano bagliori, in qualche modo, che provenivano da un genere umano perduto. Da molto tempo questo, in quell’età in cui si parlava una lingua morta perché sempre detta o scritta e mai parlata tra uomo e uomo; ed eravamo col capo chino. Io e il mio compare leggevamo titoli di giornali squillanti e chinavamo il capo; vedevamo amici, per un’ora, due ore, e stavamo con loro senza dire una parola che fosse parlata, e chinavamo il capo; e avevamo una ragazza o una moglie che ci aspettava ma neanche con lei dicevamo una parola che fosse parlata, anche con lei chinavamo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi e così gli anni e io e il mio doppio avevamo tetti bucati, l’acqua che ci entrava nelle case, e non c’era altro che questo: pioggia, massacri nelle notizie dell’ultim’ora (e tutto, davvero, era ultim’ora), e acqua sotto i nostri tetti rotti, muti amici, la vita in noi come un cupo incubo, e non speranza, ma quiete, solo auspicabile quiete.

Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perderci, ad esempio, con lui. I minori vivevano pronti a perdere – a ragione – e i maggiori vivevano da già perduti – a ragione anche loro, e con maggiori responsabilità. Quelli come me e il mio doppio, in quell’età, erano in mezzo e anche questo era il terribile: che si parlasse solo di mezzo e mai di fine, e così esser dimenticati, come coloro che sempre si collocano nel mezzo. Eravamo accecati da astratti bagliori, dunque mai nel sangue, ed eravamo quieti, senza autentico desiderio di nulla se non di oggetti inanimati, di pura forma. Non ci importava che la nostra donna ci aspettasse; raggiungerla o no, o scrivere il nostro dizionario era per noi lo stesso; e uscire e vedere gli altri o restare in casa era per noi lo stesso. Eravamo quieti, come chi mai ha avuto un giorno di vita, né mai ha saputo cosa significa esser felici, come se non avessimo nulla da dire, da affermare, negare, nulla di nostro da mettere in gioco, e nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ricevere, e come se mai in tutti i nostri anni di esistenza avessimo mangiato pane, bevuto vino, o bevuto caffè, mai stati a letto con una ragazza, mai avuto dei figli, mai preso a pugni qualcuno, o non credessimo tutto questo possibile, come se mai avessimo avuto un’infanzia di periferia, nelle campagne o al mare; ma ci accecavamo ormai da soli entro di noi per astratti bagliori, come gazze ladre che rubano anche solo il luccicar della speranza, e pensavamo il genere umano perduto, chinavamo il capo, e pioveva, non dicevamo una parola agli amici, e l’acqua ci entrava nelle case.

(Per questa puntata del Dizionario Immaginario ho voluto scrivere il remake dell’incipit di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, che coi suoi “astratti furori” rimane una delle cose più belle della musica italiana contemporanea.)