Il 13 novembre del 1850 nasceva a Edimburgo Robert Louis Stevenson. Quello che segue è un omaggio alla sua Isola del tesoro e a tutti i racconti di mare che hanno avuto come modello quel romanzo. Consiglio di leggerlo ascoltando in sottofondo questa canzone di Amintore Farfuglia.
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Approdati sull’isola, io e Muschack, il mio secondo, pensammo fosse giunto il momento di tracciare il quadro della situazione. Sull’isola regnava una certa calma; gli indigeni, feticisti del legno e del caucciù, ci avevano accolto con cauta deferenza, alcuni di loro offrendosi di accompagnarci nella foresta; il viaggio, durato sei mesi, aveva visto la morte di un solo membro dell’equipaggio, una inezia rispetto alle traversate che avevo compiuto per gli stessi mari che ero tornato a solcare a bordo di quella nuova goletta; l’equipaggio stesso si era mostrato affidabile, pronto ad accogliere ogni mia richiesta senza mai protestare. Neppure un giorno di bonaccia ci aveva colto, di quella bonaccia che guasta l’umore dei marinai prima ancora di impedire la navigazione. Tutto era filato liscio, insomma, e adesso anche la vegetazione dell’isola, il cielo e il sole ci regalavano una sorta di sorriso che tuttora non esiterei a definire ipnotico. Rimaneva dunque da compiere la parte finale e più importante del nostro viaggio, e fu a quel punto che Muschack, il mio secondo, disse: «Qualcosa accadrà adesso, poiché non è accaduta prima.»
«Terremo gli occhi aperti» mi limitai a dire da parte mia.
Gli indigeni ci accompagnarono fino al Fiume Rosso, al centro esatto della foresta. Lì si congedarono da noi e ci affidarono le loro pagode, non potendo attraversare quel corso d’acqua per loro sacro. Attraversammo il fiume in dieci, e in meno di due ore ci avvicinammo al punto indicato dalla mappa. L’umidità della foresta era lo sfondo, gli insetti e gli animali i semplici spettatori del nostro lento approssimarci alla gloria. Superato il fiume, riguadagnammo la terra, sospesi tra attesa e incredulità. «Qualcosa accadrà adesso, poiché non è accaduta prima» ripeté Muschack, il mio secondo. Questa volta decisi di tacere, per rispetto, almeno in parte, della grande esperienza del mio fedele ufficiale.
Tra due palme incrociate trovammo il punto in cui scavare. Per tre ore ininterrottamente i miei uomini si diedero il cambio lavorando di pala e piccone. La nostra attesa, il non poter credere che questa si sarebbe risolta nel semplice successo della nostra missione, ecco, questa incredulità gonfia di silenzio aveva l’aspetto di una cappa sorta dal nulla per proteggerci e soffocarci allo stesso tempo.
Trovammo il forziere. Dentro c’era quello che cercavamo, per cui eravamo giunti fino a quella meta esotica e, per certi versi, ultima di ogni nostra esistenza; ma non un urlo di gioia ci fu, non un’invocazione o un ringraziamento, per nessun dio e per nessun demonio. Raccogliemmo il forziere e riprendemmo la strada verso il Fiume Rosso.
«Qualcosa accadrà adesso, poiché non è accaduta prima» ripeté Muschack. Tacqui ancora, e ancora oggi posso dire di non conoscere le ragioni di quel mio silenzio.
Agli indigeni lasciammo vivande e una infima parte del contenuto del forziere, come da tradizione; col buio facemmo ritorno sulla goletta e aspettammo l’alba per ripartire. Gli uomini dell’equipaggio dormirono, a turno, come di consuetudine, mentre altri erano di guardia; nessuno pensò di prendere strane iniziative. Tre giorni dopo, con un vento decisamente favorevole, la nostra linea retta era lungi dall’essere spezzata. «Qualcosa accadrà adesso, poiché non è accaduta prima» ripeté ancora il mio secondo, con un’aria quasi afflitta; non mi pento di ammettere d’averlo guardato, in quell’ora, come si guarda un tenero uccello del malaugurio o il più anziano dei parenti che ci aspettano sulla terraferma, che dalla vita in mare si aspettano invece sempre una qualche forma di sciagura.
Allora osservai l’equipaggio al lavoro, giù, verso il ponte, poi ancora il mio secondo e infine il mare. Tutto filava liscio ancora. «Forse è adesso» pensai, «forse è adesso che comincia la fine davvero.»