Tredici anni fa, ai tempi in cui al Ministero per le Attese Disattese si andava delineando il mio destino, la discussione sul rapporto tra pubblico e privato era ancora ferma alla distinzione tra spazi relativamente fisici. Per dirne una, e per restare ai libri, alle storie, credo che la distinzione novecentesca tra pubblico e privato fosse tutta nella letteratura/cinematografia noir. Storie in cui il protagonista è letteralmente/letterariamente lacerato nella tensione tra virtù pubblica (risolvere un caso) e ambizione personale (conquistare la dark lady che ha orchestrato o comunque è complice del piano criminale). Nelle storie di genere classiche capita spesso che il detective privato molli la donna in nero per risolvere il mistero, per donare il proprio talento alla collettività. Sembrerebbe un gesto rivoluzionario, dunque, se al contrario si abbandonasse il caso per dedicarsi all’intento privato (mollare l’interesse comune per spassarsela con la donna amata, e amara, che è anche l’assassina, che orrore!).
Forse per questo i blockbuster hollywoodiani hanno risolto la questione con la metafora ricorrente in molti finali dei film d’azione degli anni ’80-’90, e cioè l’ascesa: molte pellicole dell’epoca si risolvono in uno scontro all’ultimo sangue tra il protagonista e la sua nemesi in posti decisamente verticali come grattacieli, statue della libertà, aeroplani, astronavi. Insomma, elevarsi: l’alta quota per dimenticare le miserie terrene e i cortocircuiti tra pubblico e privato.

Veniamo a me. Tocca sempre a un Governo o una sua emanazione ministeriale scegliere il tuo destino. A meno che non tiri fuori le palle per suonargliele. Io ero incapace di suonare. Il mio prof di musica mi fece esibire in un saggio di pianoforte dopo appena un mese di lezione, invitandomi a suonare tasti a caso. Dopodiché il programma prevedeva che io e il mio compagno di corso (anche lui a digiuno di teoria musicale) ci esibissimo in uno spettacolino di danza improvvisata il quale doveva in qualche modo rappresentare l’interpretazione fisica della composizione appena eseguita al piano. Dopo quel saggio, i genitori del mio compagno pregarono il maestro di insegnare davvero a suonare il pianoforte al ragazzo. Io mi ritirai.

Che fosse qualcosa nel solco della tradizione futurista, noise, rumorista, o che semplicemente il mio maestro avesse fiutato le mie scarse capacità, io mai saprò.

Così, io scrivo – e sì, appare comunque sospetto, come diceva Flaiano. Tant’è che scrivo mentre. Si scrive – un libro, un diario, si scrive di niente – sempre nel frattempo, mentre accade qualcos’altro. A tutti però è dato, in quest’epoca di ebbra sobrietà, uno spazio pubblico. Sta a noi decidere come impiegarlo. Ho scelto io il libro, di comune accordo – m’illudo – col Ministero. Ho pensato che fosse la via più agevole, per uno spirito col circo dentro, esibirsi in questo modo, piuttosto che sul palco. Il libro è il solo spazio pubblico che mi accordo, il mio tendone, la mia pista; qui metto tutto ciò che non dirò stasera ai miei cari – e cari mi sono tutti. Qui c’è un altro, un altro condannato in parte a esperienze minoritarie altrove. Qui ci sono i coriandoli e l’attesa, i fuochi d’artificio, le miserie raccontabili; una prospettiva rovesciata, l’ammetto, perché al solito si attendono i segreti, da un libro, ci si aspetta il privato, l’intimo, il nascosto. La tastiera è il mio pianoforte, il mentre è il mio palco – mentre si studia, si legge, si scorreggia, l’amore, le cose, il lavoro – a un livello inconsapevole accadono i libri; se ne ho fatti, non me ne sono accorto e me ne scuso.