Per intendere la poesia, bisogna dimenticarsi degli umani. Funziona come per il mito. Bisogna dimenticare e farsi dimenticare. Se frequenti troppo gli umani, ti dimenticherai che c’è una versione più elevata e sublime, anche nel peggio, di ogni questione umana.
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Si finirà comunque per leggere molti più libri di quanti se ne possa scrivere; è una cosa buona. Certo, ci sarà sempre e comunque da rimpiangere che non si è potuto leggere tutti i libri che si desiderava; resta il fatto che uno può scrivere cinquanta, cento, forse duecento libri, e che comunque ne avrà letti molti di più, il che – a quanto pare – è il requisito minimo per scrivere bene.
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Tuttavia i libri portentosi, la cui influenza per stile e temi dura una vita intera, sono forse una decina e sono quelli che si è letti per primi. Questi libri, ai quali si arriva in via del tutto arbitraria, contengono già quelli che si leggeranno in seguito; sono gli unici necessari, gli unici che ritornano, anche indirettamente, a influenzare il nostro moto scrittorio per una vita intera.
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Uno all’inizio è portato a pensare che scrivere consista soprattutto in quel che si ha da dire. In un certo senso nel contenuto, nelle storie in sé, o nei temi. Poi si impara che c’è anche un modo per farlo, e dunque l’urgenza di dire inizia a conoscere diversi filtri. Il filtro della forma dipende in parte dai libri che si leggono. In poco tempo si realizza che si può scrivere molto meglio, che poi è alla maniera di quel tale o di quell’altro, e che basterebbe un poco di esercizio, o anche una intensa intuizione di gusto letterario, per riuscirci. Insomma, tutto ordisce perché uno non trovi la propria voce o, se l’ha trovata, la smarrisca presto. Ma non è parlando o pensando di scrittura che uno la trova o la ritrova. Un musicista non suona parlando del suo strumento. Lo suona suonandolo. Parlandoscrivendo non si sta scrivendo, si sta parlandoscrivendo, appunto. Solo scrivendo uno percepisce la propria voce di scrittore.