Il racconto che segue, scritto di getto tre o quattro anni fa, è uscito oggi su Scrittori Precari.
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Una che scopavo s’è sposata. L’ultima volta che sono tornato al paese me l’hanno detto. L’ho vista che passeggiava con uno e aveva un’acconciatura. Non faccio caso alle dita, agli anelli, allora ho guardato il tipo che era con me e lui fatto «Ah». Come se dovessi rimanerci. Me la sono immaginata subito con l’acconciatura di dopo, quella che viene col primo figlio. Io al paese scendo poco e lo faccio solo per mio padre. Che dice che sta male e poi non è vero. Su dove sto faccio lavori così, pesanti si dice, mi sono uscite due spalle e in paese non mi riconoscono. Porto la barba adesso e se qualcuno ricorda dice «Quando la tagli» anche se non mi vede da dieci anni. Mi piace che passo inosservato. Mi siedo nei bar e vedo quelli che fanno le stesse cose da anni e dicono le stesse cose alle stesse persone da anni e io posso starmene accanto a origliare tanto non mi vedono. E se mi riconoscono mi prendo il caffè offerto, mi alzo e me ne vado.
Mio padre fa finta che non ha capito che faccio questi lavori impossibili e allora se la prende che non scendo mai. Così dice. Invece finisce che scendo ogni mese che lui si fa male. Si spezza, dice. Io dico che è un vecchio e si spezza come i vecchi. L’ultima volta il piede. Ma ogni volta pare che è l’ultima. Stavolta l’ho trovato peggio del solito, è vero. «Sono di passaggio» ha detto, ma non ci credeva. «Siamo tutti così, stiamo tutti così» gli ho detto io. Eravamo al pronto soccorso e c’era una fila.
Io alle cose che mi diceva mio padre da giovane ci penso adesso. M’è capitato mentre la seguivo. Lei, quella sposata. Che scopavo. Ma involontariamente, l’ho seguita, in auto. Tornavo a casa e l’avevo davanti, faceva la stessa strada. L’ho riconosciuta dalla testolina un po’ quadrata. Ogni tanto cercavo i suoi occhi nello specchietto, ma non si è accorta. Però era come se la seguivo, davvero. Siamo rimasti fermi un po’, io sempre dietro, che c’era traffico. Una festa di un santo di quartiere. Luminarie. Bambini che recitavano in dialetto. Il traffico. Lei che non mi vede. Mio padre che dice che tanto c’è sempre uno più bravo di te, in tutto. Lui col flipper. Fine anni ’70. Era il più bravo, arriva uno di un paese vicino e lo fa secco. A me capitò con un videogioco. Il tipo mi disse: «Muori, bastardo». E io morii. Da allora penso che basso: sono basso. E fortunato. Perché se sei così basso non c’è bisogno che ti ricordi che ci sarà sempre qualcuno più alto di te. Ecco. Io e lei non ci siamo incrociati, manco nello specchietto.
Con lei è successo un paio di volte. Non ci siamo trovati, non abbiamo parlato molto. Io duravo poco, mi fanno un effetto così quelle… cioè sembrava uscita da un film. Faceva cose. Non avevano senso. Non poteva sapere se mi piacevano davvero, in quel modo. Aveva sempre la lingua di fuori, leccava qualsiasi cosa, la levetta del tergicristalli, e poi mugolava, un lamento continuo manco l’avessi spaccata. Non lo faceva per me, chissà con chi era stata che gli piaceva così. Una volta che parlammo soltanto mi disse che voleva fare l’assicuratrice. Io dissi che per me tutto era abbastanza noioso e sembrava orientato verso l’alto o verso il basso, ogni cosa: sali oppure scendi. Io no. Di lato, mi muovo.
Mi sa che mio padre i problemi seri ce li ha in testa. Ancora mi chiede della laurea. Ma ho lasciato. Per lui sono uno che vive come viene. Ma che volete, uno capisce il motivo per cui è venuto al mondo solo quando è troppo stanco per cercare. Infatti adesso mio padre sembra uno deciso. Ma non lo è stato mai. Però adesso ha una luce, dietro agli occhi. Non dentro. Dietro.
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