Non c’è niente di più inutile e stucchevole, in amore, di un “Te l’avevo detto”. Il pezzo che segue, in effetti, è uscito sul numero 54 della rivista inutile. E in effetti dentro ci stanno Dolly Parton e Jack White, Justin Vernon col suo buon inverno e, ancora una volta, il mio amico Jack Faccia-da-cane.
Buona lettura.
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“Se ne scrivo, è finita. Se ne scrivo, è perché è finita. Oppure quando ne scrivo è perché sono convinto che sia finita.”
Vincent Fandango
C’è questo mio amico di cui devo aver parlato altrove, si chiama Jack Faccia-da-cane, è un bluesman. Per la verità sono io che gli faccio notare di esserlo, un bluesman, perché lui non ha mai toccato mezzo strumento in vita sua e non pare neppure in grado di cantare, non in maniera ordinaria, perlomeno. Voglio svelare qui il motivo per cui si chiama Faccia-da-cane: è che mentre mangia non vuole esser guardato, proprio come i cani. Quanto alla sua anima blues, da quando lo conosco lui non fa che lamentarsi. Io lo invidio. Se c’è qualcosa che non va, se ha problemi di soldi o di donne, se lo ha preso il duende, lui lo butta fuori senza pensarci troppo – e non senza una gran dose di autoironia, a volte. In un certo senso canta per gettar fuori il demone, considerato che spesso siamo noi il nostro demone. È un atto che si dovrebbe fare anche con le sensazioni buone, in particolare con la gioia, perché anche la gioia, se resta di traverso, finisce col danneggiarci il fegato non meno di un Chivas invecchiato dodici anni.
Dunque la lamentazione. Da noi il termine assume un tono quasi cattolico, in ogni caso religioso, quasi medievale. Ma c’è un verbo americano che dà il senso del lamento del mio amico. Il verbo è: to moan. Che significa comunque lamentarsi, ma col canto, il canto blues che mette fuori gioco il demone almeno per la durata di una canzone, per la durata del canto. A me il moanin’ fa venire in mente il trascinarsi di catene, un serpente che si aggira tra i pochi cespugli di un paesaggio deserto, la gamba fessa di uno zoppo che fa attrito sul terreno.
L’altra notte, una notte molto calda, ho fatto dei pessimi sogni, a patto che si possano accostare degli aggettivi ai sogni, e il giorno dopo quei sogni, molto forti, si sono tramutati in blatte. Avevo la casa piena di blatte. Sono dovuto andar via per qualche giorno, dopo aver chiamato la ditta per la disinfestazione. Ho pensato che se avessi cacciato fuori il demone, invece di lasciarlo dentro fino a sognarlo… E poi c’è la questione del caldo. Nei posti caldi del mondo si vive di rassegnazione o accettazione. Ogni anno ci stupiamo che possa fare così tanto caldo. Ci rassegniamo o accettiamo il caldo. Poi quando ci siamo abituati, quando pensiamo che tutto sommato siamo fortunati a vivere nel sole, torna l’inverno, e per quanto mite possa essere, ci rassegniamo al fatto che neppure il caldo possa durare a lungo, quel caldo di peste gialla che ci ha fatto letteralmente impazzire per tre mesi. E così via.
I peggiori omicidi, nei posti caldi, si compiono d’estate.
Per gettar via il demone senza impugnare il coltello, allora, c’è solo da cantare e accettare il caldo, il sudore, che è un altro modo per far scivolare via qualcosa che ci avvelena. A me è capitato spesso di risolvere in questo modo alcune questioni. Caldo e canto. Allora voglio raccontarvi di due canzoni, due canzoni che parlano d’amore, una lo tiene in sospeso in attesa della sconfitta, mentre l’altra è un lamento che si nutre di distanza.
La distanza a volte è una lente d’ingrandimento: chiarisce, ingrandendo.
A un certo punto della sua vita Dolly Parton era convinta che suo marito stesse flirtando, se la memoria non m’inganna, con un’impiegata di banca. A dire il vero il fatto che si trattasse di un’impiegata di banca è utile al mio ragionamento. Pensateci: da un lato Dolly, una cantante country con tutte le sue idiosincrasie, dall’altra un approdo sicuro benché più giovane. Racconta Dolly di una sua fan piuttosto vivace e carina che le chiedeva un autografo con una certa insistenza. Si chiamava Jolene e in un modo o nell’altro Dolly dovette associarla alla figura dell’impiegata di banca. Ecco Jolene, dunque, una delle canzoni sulla gelosia più potenti che siano mai state cantate. Soprattutto nella versione live dei White Stripes.
Sono dell’idea che quando un uomo riesce a cantare in maniera autentica una canzone scritta da una donna, allora quella canzone funziona davvero. In generale è molto bello quando un uomo riesce a tirar fuori la sua parte femminile. Pensateci, per una donna è in un certo senso più facile intuire il maschile, perché la nostra società impone il punto di vista maschile dappertutto e per un sacco di altri motivi piuttosto banali. Ma se un uomo riesce a cantare e a soffrire con la sua parte femminile, allora quello è blues vero. Così mentre la Jolene di Dolly Parton ha un’andatura soffice, comunque da ballata country, il canto di ruggine di Jack White trasforma la canzone in qualcosa di rotto, fatto a pezzi, sventrato dal demone della gelosia. La Jolene dei White Stripes, dal vivo, è una canzone sull’umiliazione, come in effetti suggerisce il testo. Dolly Parton descrive una donna bellissima, di cui il marito parla persino nel sonno, e alla fine della lunga descrizione dice una cosa indicibile: so di non poter competere con te. Sa, Dolly, con quale facilità l’altra può prendersi il suo uomo in qualsiasi momento lo desideri. Aggiunge: ti prego, non farlo solo perché puoi, perché ne sei capace, anche se ne sei capace. Ma poi il ritornello della versione originale, nel chiamare il nome di Jolene, lo fa con un coro che ricorda, forse, il canto delle sirene. È il richiamo verso un’altra donna da parte di una donna che sta per ferirsi, che sente la competizione e allora elenca i pregi dell’altra forse per attirarla a sé, che è sempre un buon modo per neutralizzare l’avversario. Ma Jack White sa che Jolene è una canzone che parla di umiliazione, dà il giusto peso al verbo to beg: I’m beggin’ you, please don’t take my man. E così l’arpeggio iniziale diventa una serie di note adagiate sul letto vuoto, sul nulla assoluto e totalizzante che ci tocca in sorte dopo il probabile abbandono, e così comincia il lamento delle qualità dell’altra donna. Quando Jack White guaisce che non può competere con l’altra, qualcosa si rompe, la chitarra gratta a vuoto e poi esplode la rottura, il pianto, la preghiera indicibile a un’estranea sotto forma di un canto disperato, umiliante. La nostra felicità dipende non più dall’uomo amato, ma dalla donna che ce lo porterà via.
Quando ascolto questa versione di Jolene qualcosa mi tocca il cuore, mi prendono i brividi e inizio a sudare come si suda quando si sente la vergogna, nudi e svuotati davanti agli altri.
A questo punto questo pezzo per la mia rubrica che mischia due o tre cose per arrivare a conclusioni strampalate potrebbe anche concludersi. Ma c’è un’altra canzone, che come dicevo usa la distanza come lente d’ingrandimento, che va ascoltata in cuffia e si chiama Skinny Love. Non so molto del suo autore, Justin Vernon, e dei suoi Bon Iver, e non conosco altre sue canzoni. So solo che per scrivere questa e le altre del disco da cui proviene se n’è andato a stare in montagna per un po’, dopo la fine di una storia d’amore. E che quando mi è capitato di incontrare Skinny Love per caso, in giro, alla radio o per locali, l’ho scansata rimandando a un altro momento un ascolto più approfondito. Era evidente il dolore che conteneva.
(A volte penso che solo i veri artisti hanno questa cosa di andarsene per un lungo periodo in montagna a scrivere per poi ritornare. Se non hai questa possibilità e questa capacità, non sei un vero artista. Al posto di Vernon mi sarei fatto sbranare da qualche orso e non sarei mai più tornato.)
Pensavo che il termine skinny avesse a che fare con la magrezza, con gli scheletri, e quindi qualche giorno fa mi sono deciso ad ascoltare Skinny Love come si deve. Poi ho cercato su un dizionario di slang americano, scoprendo che si tratta di qualcosa che indica la nudità dei fatti, la verità nuda e cruda, come si suol dire. Percorro comunque la via dell’amore scarnificato, per quello che è e che resta il giorno dopo la fine. Qui il testo conta poco, ad eccezione dell’attacco, quel C’mon che in genere troviamo nei ritornelli e che qui invece ha la stessa funzione di infilarti subito dentro una storia o un’atmosfera come nel caso dell’incipit di certi racconti o romanzi. Poi c’è una serie di notizie e dettagli che probabilmente hanno a che fare con la vera storia di Vernon con la sua donna. Una serie di dettagli che, come mi ha insegnato un vecchio maestro, necessitano di diventare finti per rivelare la loro verità al mondo.
C’è che hai fatto la valigia, la valigia che pensavi di riempire comunque di un mucchio di cose, e invece hai scoperto che nella valigia non hai potuto infilarci un bel niente. C’è che da un giorno all’altro tu non riconosci lei e lei non riconosce più te. Tutte le coincidenze, i simboli, gli intenti comuni si sono fatti polvere e sei troppo stanco per spiegartelo. Oppure c’è che lei se n’è andata con l’impiegato di banca della canzone di Dolly Parton, anche se giusto il giorno prima sembrava non potesse vivere senza le tue cure. C’è un distacco, insomma, e il distacco non è altro che quel letto vuoto che richiama un abbandono universale, come se non ci fosse mai stato nessuno al tuo fianco.
E poi c’è il ritornello, che non è una questione di senso quanto di suono, di lamento. Non ho mai sentito una voce usare il miele e lo zucchero che gli avanzano in gola per lamentarsi in questo modo. Per accertare il dolore del distacco in questo modo. Justin Vernon sembra un uomo che deve difendersi dalla cosa più cara che ha al mondo. Capite bene che è una cosa impossibile. Te l’avevo detto, dice, te l’avevo di essere paziente, te l’avevo detto di far la brava. Te l’avevo detto. Non c’è niente di più stucchevole e inutile, in amore, di un Te l’avevo detto.
A questo punto immagino che il mio amico Jack Faccia-da-cane abbia ripreso a lamentarsi da qualche parte in giro per il mondo. Sono quasi certo che si trovi in un posto caldo e che avverta il lamento come una necessità. Ho detto che l’invidio per questo. La verità è che lo stimo pure. La verità è che dovremmo esser riconoscenti verso chi ha il fegato di lamentarsi in un certo modo, che è un po’ come cantare il canto. Dovremmo esser riconoscenti verso chi canta anche i nostri demoni attraverso il proprio lamento, dovremmo esser riconoscenti verso noi stessi quando siamo ancora in grado di cantarci.