“Voglio la notte, e la voglio senza luna.”
Vinicio Capossela | Bardamù
Mettiamola in questo modo: la similarità delle premesse e delle conseguenze di certi addii dà il senso di una (altrettanto) certa solitudine.
Una cosa che si può fare, allora, è sistemare il tavolo di traverso, sedersi dal lato corto e mettersi a scrivere come se si fosse al pianoforte. Ma ci vuole un tavolo lungo, lungo come il muso di certe donne quando premono sull’acceleratore degli addii, quando dicono che nulla importa davvero rintanandosi in quella postura che è un modo di stare senza stare che hanno solo certe cantanti argentine. Un’altra cosa che si può fare, allora, è evitare di mandare messaggi criptici e ricordare che non siamo educati all’addio, al commiato. Non ci piace il sonno degli abbandonati, con le lame nello stomaco che ti svegliano in piena notte, riportandoti a quell’urgenza da arrotino che spinge sempre a voler aggiustare le cose. Non ci piace il risveglio degli abbandonati, che è il risveglio esausto di chi è sopravvissuto alla notte, al sonno, di chi ha già compiuto l’impresa.
Perciò l’addio è da maleducati. Alcuni commiati si svolgono in un rifiuto categorico che porta al dileggio. In fondo anche l’addio è un rito apotropaico: si sta allontanando se stessi dicendone però di tutti i colori al primo che ci passa davanti. La vita, con le sue fatiche, continua ad essere una formica. Ottusa e operosa. La morte si rivela sempre più una cicala, in ogni suo atto apparentemente ultimo, esaltante. Fa le cose e le dimentica, per poterle fare tutte, per poterle fare ancora, reitera il senso dell’impresa dimenticandosene un attimo dopo, con nessuna coscienza di sé, o forse con una disperata coscienza di sé, e con determinata coscienza degli altri, con quella coscienza superficiale e leggera insieme degli altri, così che li si possa persino cantare.
“They declared me unfit to live.”
Bruce Springsteen | Nebraska
Nelle ore successive all’abbandono, l’irrazionalità è l’unico appiglio lucido che troviamo. Ci attacchiamo al ricordo di una presenza, dunque a un’assenza, a un fantasma, per farne ancora una presenza al presente. Riandiamo nei luoghi, nelle canzoni, nelle abitudini di quella presenza. Ma il terreno su cui credevi di aver portato l’altro è adesso un deserto. Quel terreno su cui si arriva insieme, e poi uno dei due va via. Ci sarebbe da essere ancora maleducati e fare come in quel film: lui che in vecchiaia deve continuamente ricordarle chi sono loro due, chi è lui, chi è lei, affetta da demenza senile, raccontandole ogni giorno la storia di altri due che s’innamorano da ragazzini e restano insieme fino alla fine. Ma la questione non è l’amore, non è la rappresentazione dell’amore, la questione è il terreno su cui si sta insieme, che è la vita e la fatica di ogni giorno. Siamo formiche a cui piace pensarsi come cicale. La questione è anche una questione di tempo, di orologi.
“Suona un’armonica.”
Mike Patton | Il cielo in una stanza
Il tempo è una delle poche cose al mondo che si possono studiare con grande applicazione senza tuttavia capirci granché. Non esiste in natura qualcosa di simile agli orologi. Perciò gli orologi sono contro natura, o di natura bastarda perché tipicamente umana, proprio come gli specchi. Gli specchi e gli orologi sono le più grandi ossessioni umane. Non è sufficiente sistemare un orologio in corridoio o in uno spazio di passaggio per dimenticare il tempo, così come non è sufficiente usare come specchio il vetro nella cornice di un quadro con sfondo nero per dimenticare la nostra faccia. Siamo sempre lì, siamo sempre noi, sempre, a tutte le ore. Per questo è bello portare i capelli corti, così al mattino non c’è alcun doppio da pettinare, per questo sono belli gli orologi fatti a morsi sui polsi come i bambini, perché non hanno lancette.
Quanto detto fin qui è solo una scusa, una banalissima scusa per riportare alcuni versi di Raymond Carver sul tempo. La poesia del buon vecchio Ray si chiama L’orologio di Kafka e fa parte di Orientarsi con le stelle, un libro prezioso, che tempo fa ho voluto regalare a una persona molto importante. Era un modo per dirle: Non sei sola, c’è e c’è stata altra gente con la tua stessa sensibilità: resisterai.
A quanto pare, e chiudo, L’orologio di Kafka è tratta da una lettera. Penso che la poesia, la lettera e l’invettiva siano i generi letterari più interessanti. Il romanzo è molto giù nella mia classifica personale. Ma questa è un’altra storia. Quella di Carver, invece, fa così:
Ho un impiego con un misero salario di 80 corone e
otto, nove ore di lavoro che non finiscono mai.
divoro il tempo libero dall’ufficio come una belva feroce.
Spero un giorno di potermi sedere in un altro
paese e guardare fuori dalla finestra verso campi di canna da zucchero
oppure cimiteri maomettani.
Non è tanto del lavoro che mi lamento quanto
della lentezza di questo tempo paludoso. Le ore d’ufficio
non si possono dividere! Sento la pressione
di tutte le otto, nove ore anche nell’ultima
mezz’ora della giornata. È come un viaggio in treno
che dura giorno e notte. Alla fine ci si sente
completamente schiacciati. Non si pensa più agli sforzi
della locomotiva o ai colli o alle pianure
attorno, ma si dà la colpa di tutto quel che succede
al proprio orologio. L’orologio che si continua a tenere
sul palmo della mano. Poi lo si scuote. E lo si porta lentamente
all’orecchio, increduli.