28 ottobre 2013, ore 6.08

Be’, che dire. Senza Lou Reed non avrei mai iniziato a scrivere. E se non avessi scritto, non avrei amato, per cui penso che tutte le persone che ho amato – e che si sono sentite amate da me – dovrebbero essere un po’ grate a Lou Reed. Il quale mi ha pure insegnato che l’amore, in fondo, non è altro che: You made me forget myself, I thoutgh I was someone else, someone good.
Credo anche che Lou Reed fosse comunque un po’ stronzo, e infatti in cuor mio non gli ho mai perdonato di esser sopravvissuto a uno come Lester Bangs. Ma Lou Reed mi ha insegnato anche che se riesci a trovare della bellezza nella merda pura, allora quella è bellezza vera. Mi ha insegnato a quale altezza guardare – e non da quale, per fortuna. E che la poesia non è per forza in versi, e che l’amore può prendere diverse forme. E mi ha insegnato anche, con Heroin, che la dipendenza è un fatto mentale, è quel desiderio di dormire per mille anni e svegliarsi altrove, e che alla fine dei giochi, comunque, la sensazione sarà quella di non averci capito un bel niente. E che è umano ammetterlo.
Ma soprattutto, Lou, mi hai insegnato che a contatto con uno strumento, con un’altra persona o con quel che vuoi, ognuno ha il suo suono. Il suo proprio suono, unico e inimitabile, e che ognuno di noi è invischiato in questa battaglia fatale per trovare la propria voce. E allora forse ho fatto bene, nel 2003 o giù di lì, a non venire a sentirti a Otranto per preferirti, quella stessa sera, la mia prima volta alle prese con una chitarra. E capitolare poi nel 2011, come un omaggio per quel che mi avevi insegnato, guardandoti vecchio, comunque stralunato e nobile sul palco dell’Italia Wave, a Lecce. In quella stessa edizione del festival avrei presentato il mio primo libro, giusto il giorno dopo la tua esibizione.
E allora ho fatto bene, sì.
Sappi infine, Lou, che il tuo vecchio disco, che ho rubato ai miei genitori, suona benissimo nella mia nuova casa.

§

(E devi sapere che ti abbiamo fatto pure il consolo, con gli amici del bar che chiudeva per sempre proprio la sera della tua morte. Il consolo, lu cunsulo, che ha a che fare con la consolazione, quando porti da mangiare per i parenti che fanno la veglia al defunto. Siccome eri lontano, però, ce lo siamo fatti da noi, siamo saliti nella berlina del barista, ci siamo sistemati nel portabagagli insieme ai succhi, alla Nutella, al tonno e agli alcolici avanzati dal locale, e ce ne siamo andati a fare colazione in un altro bar, e tu lo sai, vero?, che il bar in cui si fa colazione da queste parti si chiama: Manhattan.)