solitario

Questo racconto è uscito un mese fa circa su Scrittori precari. Credo sia la prima volta che scrivo qualcosa a proposito degli avvenimenti di Genova 2001. Ma soprattutto questo racconto è un omaggio a Enoch, un nome molto importante nella Bibbia e che torna, curiosamente e in modo molto simile, in alcuni racconti di Sherwood Anderson e Flannery O’Connor.
Buona lettura.

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Il padre di E restaurava mobili antichi. In un modo o nell’altro aveva provato a instillare nella testa del ragazzo l’idea che bisogna sempre darsi pena, a tutti i costi, pur di non annegare nella sufficienza. Molto sopra o anche molto sotto, ma mai in mezzo, ripeteva il padre di E. Lo faceva con gusto e con calma, da buon amico più che da genitore. Fino a diciott’anni la vita del ragazzo si svolse comunque senza grandi scossoni e soprattutto lenta, molto lenta, come accade per l’infanzia quando la riesumiamo da adulti. Non ci furono ragazze né grandi passioni, nell’adolescenza di E.
Nel luglio del 2001, tuttavia, accaddero due cose che avrebbero avuto un peso molto diverso nel prosieguo della sua vita. C’era una viaggio da fare proprio con suo padre, a Genova, per visitare il grande acquario. Ma questo viaggio fu rinviato, perché a Genova in quei giorni ci sarebbero state delle grandi manifestazioni. Durante quelle manifestazioni accadde in effetti qualcosa di terribile. Un ragazzo si beccò una pallottola in testa da un carabiniere. Subito dopo un blindato dell’Arma calpestò il suo cadavere. E e suo padre guardarono a lungo i filmati della morte del ragazzo in tv. Il padre di E si diceva disgustato. Diceva che il ragazzo morto assomigliava a E, che avevano la stessa età e lo stesso taglio di capelli, diceva che poteva esserci suo figlio al posto del morto (lo diceva rivolto alla tv) e che il mondo andava certamente peggiorando. Dal canto suo E non aveva un’idea ben definita della questione, si percepiva certamente disgustato per quello che vedeva in tv ma doveva esserci come un filtro, nella sua testa o nello schermo, che non gli permetteva di accedere concretamente al dolore racchiuso in quegli avvenimenti. Ad ogni modo, per la prima volta E giungeva alla conclusione che lui e suo padre erano molto diversi, che quel che gli mancava era la parte storica, così la chiamava, che al contrario portava suo padre a vedere le cose in un certo modo, a tratti politico, a tratti solo eroico o solo tragico.
Sempre in quel mese del 2001, E vide per la prima volta T, che all’epoca doveva avere sedici anni, seduta su una panchina del parco. Realizzò che era una ragazzina molto dolce e che, prima o poi, lui avrebbe dovuto trovare una donna del genere, bella e in un certo senso cupa, misteriosa. Ma c’era tutto il tempo per pensarci, perché due mesi dopo E sarebbe partito per l’università, a mille chilometri dal paese.

I primi mesi in città E li trascorse chiuso nella sua stanza. Mangiava ogni tre giorni e comunque non più di una volta al giorno, alla mensa dell’università, finché non venne una nuova coinquilina. Si chiamava S, studiava farmacia e aveva deciso che avrebbe cucinato anche per E. Fu con lei che E parlò per la prima volta degli avvenimenti del luglio precedente. S si era avvicinata alla politica proprio in seguito a “quell’assassinio di stato”, così lo chiamava. All’università frequentava dei collettivi di cui E non riusciva ad afferrare neppure mezzo nome, ma soprattutto S frequentava solo uomini stranieri. Iraniani, maghrebini, al più francesi e tedeschi. Gli italiani non le piacevano. Le piaceva il pianoforte, che aveva smesso di suonare un anno prima, e che avrebbe voluto riprendere in vecchiaia, “quando tutto si sarà sistemato”, così diceva. Ad ogni modo E e S non riuscirono mai a parlare davvero della morte del ragazzo a Genova, per parte di E perché anche in quel caso c’era qualcosa come un filtro a bloccarlo, e per parte di S perché era più forte la tentazione di parlare dei meccanismi più grandi che avevano portato a quell’assassinio. Così la questione si risolse in altro modo: una sera S decise che era il momento giusto perché E iniziasse a pensare alle donne e così gli chiese di dormire con lei, nella sua stanza. E disse di sì e seguì tutte le direttive di S, che fu molto attenta fino a sciogliersi in un lungo orgasmo; dopodiché la ragazza spiegò, prima di addormentarsi, che certe cose non le avrebbero fatte, insieme, perché lui avrebbe dovuto continuare a esplorare da solo. Una settimana dopo S si trasferì in Francia col suo ragazzo iraniano.
Per qualche tempo E se ne restò in camera, a pensare più alle cose da esplorare con le donne che all’assassinio di Genova. Nella sua testa, in effetti, prendeva corpo la tesi dell’assassinio, anche se non sapeva da parte di chi.

Le cose che ancora non sapeva sulle donne E iniziò a scoprirle un mese dopo la partenza di S, in un bagno dell’università, quando la giovane assistente di un professore glielo prese in bocca. E aveva deciso di frequentare le lezioni, e in un modo o nell’altro aveva attirato l’attenzione di questa ragazza, che poteva chiamarsi M o N, e che più che l’assistente di un vecchio critico letterario aveva in mente di fare la scrittrice. E visse con lei per un paio di settimane, finché un giorno la ragazza non rivelò che l’unico uomo che le era venuto dentro era stato proprio il suo professore, e così E insistette per fare lo stesso, e M o N disse che si poteva fare, offrì il culo e poi chiese a E di sparire. Per un po’ E pensò a questo: l’unica donna che poteva dire di avere il suo sperma in corpo gli aveva chiesto di sfumare via proprio come tutti i poeti e gli scrittori di cui avevano parlato per notti intere. Lo stesso avveniva adesso per E con Genova, dal momento che nella sua testa era come se ci fosse stato davvero in gita con suo padre, una di quelle gite fatte controvoglia, che si dimenticano facili col tempo.

Nei mesi e negli anni successivi E cominciò a frequentare scrittori, musicisti, e poi professori, politici, linguisti, psicologi, sociologi. Per un po’ E ebbe una casa tutta sua, e così questi strani personaggi simili a fantasmi andavano a trovarlo, arrivavano lì, discutevano di Lacan o Latouche o Freud come se si trattasse dell’ultima cosa buona accaduta su questo pianeta e andavano via. In un certo senso si trattava di feste, in un certo senso E si sentiva il festeggiato. Era felice se qualche ragazza restava per la notte, e mentre faceva l’amore E non pensava più a Genova, e neppure a quel che sapeva delle donne, ma rimasticava le cose che aveva ascoltato dai suoi ospiti, dalle teorie sulla tecnologia come una sorta di nuova Natura, matrigna e indifferente proprio come quella di Leopardi, fino a quelle sul fascismo come stato mentale più che come fatto storico o politico; in particolare, la persona che aveva detto questa cosa sul fascismo aveva aggiunto che aveva trovato più fascisti tra i suoi amici che tra i suoi nemici. Così E aveva pensato al fatto che non aveva ancora trovato dei nemici veri.

A un certo punto E si chiuse in casa. Era stanco di frequentare questi fantasmi. Pensava che in fondo gli scrittori non facevano che parlare di letteratura, i politici di politica, i sociologi di sociologia e così via… Dov’erano i pensieri normali che E aveva fatto fino al luglio del 2001, dov’era la vita vera a cui quei pensieri avrebbero dovuto condurre? Nessuna delle persone che aveva incontrato fino ad allora sembrava realmente interessata al mondo fuori, anche se E non sapeva bene cosa potesse essere questo mondo fuori. Ci pensò a lungo, iniziò a dipingere con scarsi risultati, infine riprese a uscire tra un esame e l’altro. Per un po’ frequentò due donne contemporaneamente. Una faceva la cameriera, dopo un mese era pazza di lui e sembrava non desiderare altro nella vita. Quando E si allontanava, lei smetteva di mangiare. L’altra donna era una parrucchiera, non disse mai ad E di amarlo ma vomitava ogni notte che lui era lontano. A nessuna delle due donne E parlò di Genova né provò a spiegare che tipo di umanità aveva incontrato fino a quel punto, perché E sapeva che le parole sono pallottole, colpi che a volte o per la maggior parte vanno tenuti in canna.
L’ultimo anno di E in città trascorse diviso tra queste due donne, che non seppero mai l’una dell’altra e soffrirono molto a causa di E o almeno così credettero. Entrambe ebbero dei sospetti in un paio di occasioni, e sempre in un paio di occasioni progettarono di uccidersi o di uccidere E. Ma non avrebbero comunque fatto in tempo, perché a un certo punto E decise di lasciare l’università e tornare al paese.

Dopo la morte del padre, E prese in mano quello che era ormai diventato un mobilificio. Per cinque anni E fece l’imprenditore con risultati che si attestarono su una sufficienza incolore. Alcuni conoscenti gli consigliavano di ingrandirsi, altri parlavano confusamente di una certa crisi economica e si chiedevano come facesse E a restare in piedi, e perché poi non si sposasse. Finché E non decise di vendere e stabilirsi in una piccola casa di campagna, con pochi soldi e senza alcuna voglia di avere idee di alcun genere. Riprese a dipingere, e nei suoi quadri, che lo stesso E definiva “brutti e notturni”, tornavano gli intarsi e i ricami dei mobili restaurati da suo padre. Ma anche questa parte della vita di E finì subito.
Un giorno E incontrò T per strada. Era diventata una donna alta, spigolosa, con un corpo difficilmente gestibile da chicchessia. Non fu comunque difficile riconoscerla. E la invitò a casa per un caffè. Lei accettò. Il caffè si tramutò in un una lunga sequenza di birre. T raccontò la sua storia, E ascoltò in silenzio. In seguito avrebbe concluso che chiunque avrebbe potuto immaginare il modo in cui erano andate le cose per quella donna prima ancora che lei si fosse data pena di aprir bocca. Quella notte finirono a letto e E tentò in tutti i modi di venire dentro T. Dopo, molto dopo, forse verso l’alba, E chiese a T se ricordava qualcosa del luglio del 2001 e se sentisse di avere dei nemici. Lei disse di no e che comunque non capiva, lo disse sorridendo, aggiunse che voleva dormire ancora, ma E aveva deciso che non era più il caso di tenere i colpi in canna, così prese a parlare col suo buon demone in corpo, le spiegò cosa aveva visto, le raccontò l’umanità che aveva incontrato, le teorie di ognuno su di sé e sul mondo, e poi il lavoro, i quadri, a un certo punto E parlò di fantasmi, mentre T era già in piedi a rivestirsi, e E continuava e continuava, diceva che le stava regalando tutti i suoi fantasmi e che ai tempi dell’università un tizio che studiava psicoterapia o qualcosa del genere gli aveva rivelato che c’è una spiegazione scientifica, persino clinica, per i fantasmi, per le idee che ci restano in testa per anni e che non vogliono sapere di andarsene, e a quel punto T era davvero in piedi e pronta ad andarsene ma E saltò nudo giù dal letto e le fu addosso, a spingerla con colpi regolari del bacino contro la scrivania, e lei avrebbe iniziato a urlare se non fosse che dentro era certa di essere già morta, finché E non si calmò, almeno in apparenza, e le chiese di sparire, poi lo urlò e ripeté che non dovevano più vedersi, che non avrebbe voluto rivederla mai più in vita sua.