Il Minotauro di Friedrich Dürrenmatt è una bestia bambina. Incapace di riconoscere gli altri come suoi simili, li sbrana per delusione, la delusione di essere unico e solo al mondo. Non può che giocare in solitudine, patetico e lontano, davanti allo specchio che lo moltiplica. E così anche noi siamo spesso minotauri di noi stessi, allo specchio o alle prese con quei rapporti-specchio in cui non cerchiamo che ancora noi stessi, soli e bestiali – proprio come gli altri, del resto.
Quello che segue è allora un estratto da Storie d’amore disadorne, un racconto incluso nel mio primo libro, Sono un ragazzo fortunato.
Buona lettura.
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Sono davanti allo specchio, e studio il mio volto. Oggi ho tagliato i baffi. Li portavo da un anno. Mi osservo, mi sento come ringiovanito da questa mia nuova e glabra figura. Si sa che i baffi danno un’aria più seria, così eccomi, sono di nuovo io, dopo un anno, con l’età giusta al posto giusto. Una volta ho letto un romanzo in cui il protagonista si tagliava i baffi dopo anni, e la moglie e gli amici non lo riconoscevano più, tanto erano abituati all’idea che li portasse. Erano così abituati all’immagine che avevano di lui che quando li tagliò pensarono che non li avesse mai avuti. Una storia terribile, che finisce male, ma che ha poco a che fare con me.
È un anno che non esco di casa, non ho amici o fidanzate da far assuefare all’idea di me. Solo mia madre da tenere a bada, ma è invecchiata in fretta, dopo che mio padre è fuggito con una bella ragazza più giovane di lui. Beato lui. Sono serio, io e mia madre ce ne siamo fatti una ragione piuttosto in fretta, lo abbiamo accettato. In famiglia non abbiamo mai creduto all’idea dell’amore come qualcosa di eterno. L’amore eterno dura quindici minuti, dico io; quindici minuti in cui è fantastico, ti fa toccare l’infinito e pensare di poter vivere in eterno. Passati quei minuti, mia madre ha incassato il colpo e ha deciso che il modo migliore per sistemare le cose era invecchiare. Per lei non fa differenza se esco o meno di casa, o se porto i baffi.
Io invece ho deciso di semplificare le cose. Non so perché, ma questo ha significato tagliare qualche legame. Non era esattamente quello che avevo immaginato. Ma mi sono costruito una corazza che gli altri non hanno potuto approvare. Non li biasimo. Insomma, oggi mi limito a tenerli a distanza. Vuoi uscire? No, devo studiare. Oppure: no, devo vedermi con una. Così non si fanno nemmeno strane idee su eventuali crisi sentimentali, da cui deriverebbero inutili e non richiesti tentativi d’aiuto.
E mi trovo qui, davanti allo specchio. Quando mi faccio la barba, finisco col pensare sempre troppo. Mi capita addirittura di provare rabbia per mio padre. Ma è solo un momento. Dipende da quello che ascolto come sottofondo. Spesso tocca a una canzone di Paolo Conte, quella della verde milonga. Il mio umore, mentre mi rado, segue la sua sequenza di accordi: le strofe, in minore, mi mettono giù, penso cose terribili, ma subito dopo, al ritornello, maestoso, sicuro, caparbio, con i suoi accordi maggiori, eccomi di nuovo fiero di me e dei peli che vedo cascare nel lavandino.
Oggi, coi baffi, è stato più difficile. Ci ho messo più tempo. Dopo la canzone della verde milonga, ho dovuto allungare il brodo con del blues, credo fosse Solomon Burke. Il blues è sempre una certezza, vai a colpo sicuro. È caldo, sempre dalla mia parte.
Questi cantanti neri hanno il dono dello spiritualismo. Ma non quello idiota che ti porta a pensare che ci sia sempre il lieto fine, e per giunta per tutti, un’illusione da due soldi. È piuttosto quello spiritualismo che ti porta ad apprezzare la fusione con un altro essere umano, con un popolo intero, dopo aver condiviso lo stesso patire, dopo aver sudato assieme. È la musica più sensuale che possa esistere, unisce spirito e corpo, quei corpi che hanno subito ingiustizie, violenze e schiavitù per millenni.
Ma anche il blues finisce, conto i peli nel lavandino e smetto di pensare. Per oggi è abbastanza.