Male, molto male supporre che esilio e esilio volontario coincidano. L’esilio, quello vero, lo riconosci da seduto, solo dopo che si è concluso. Solo dopo ripensi ai posti che hai battuto a tappeto alla ricerca del tuo personalissimo nulla perché non potevi tornare in quelli soliti. Solo dopo ripensi alle persone che avresti voluto portare con te, ma è una contraddizione: se non era per loro, non ci sarebbe stato esilio. Solo dopo ripensi che quando è esilio, tutto è casa provvisoria: gli altri, il cibo, le storie, la strada, la tua auto – e poi diciamoci la verità, chi di voi qui non ha mai dormito in auto?
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Com’era dolce il mio dolore, e come lo abitavo bene. Finché non s’è fatta gran confusione, e in assenza di risposte s’è mutato in un più cauto e delicato orrore. Così. In assenza di risposte si entra in una dimensione parallela, si sperimenta l’esperienza religiosa. Dal mistero nascono i fantasmi. Ed ogni storia è in fin dei conti una storia di fantasmi. Piccoli innocenti fantasmi, piccoli innocenti fantasmi inevitabili. Così. La condizione che sempre segue quella dell’estraneità è quella dello straniero. Porre domande in una lingua e ricevere risposte in un’altra. Sorridere delle incomprensioni. Come il cielo che in un lampo da nuvolo si fa sereno, e proietta in quell’istante ombre di edifici fino a poco prima insperati. Così. Tornare al rancore bambino, indirizzato ai passanti incolpevoli, immotivato se non per l’inezia che non si è ottenuta. Per il ragno che non si è schiacciato, o per quello che – si dice porti fortuna, con le zampe lunghe e il corpo piuttosto sviluppato, così – ho trovato morto o forse solo arreso al ritorno sul muro.