Tra il 1986 e il 1987 la nostra relazione ebbe dei colpi di coda. Piccoli eventi senza preavviso che in genere restringono il campo degli equivoci limitandosi a nascondere un po’ di polvere sotto il tappeto.
Devo dire che ogni cosa accadde principalmente per merito suo. Nell’aprile dell’86 era uscito il suo primo libro di poesie, cento brevi componimenti che un suo amico critico non smetteva di lodare e di definire di derivazione orientale. Io non ci capivo granché. Certo, erano versi dolci, molto brevi, e certo soprattutto leggeri, abbarbicati, in modo altrettanto leggero, a una certa idea di estasi, per così dire, piuttosto soave; la sua era una leggerezza molto consapevole, benché non formalizzata in alcun modo, che mi faceva invidia in fondo allo stomaco. Ma all’epoca neppure me ne accorgevo.
Nel dicembre dell’86 arrivò la malattia. Entravamo e uscivamo dagli ospedali, come si suol dire, di continuo. A volte, se necessario, ci restavamo una o due notti. C’erano giorni in cui lei non parlava. Altri in cui non riusciva neppure a mangiare. Non potevo non starle accanto, malgrado le cose, tra noi, funzionassero già poco. Posso dire che in quel momento la nostra felicità, ammesso che fosse tale, era a intermittenza, la somma di tante piccole infelicità intermittenti. Ad ogni modo sentivo, sentivo con tutto me stesso quello che provava, una grande forza d’animo con cui si difendeva, per così dire, dal tentativo del destino di metterla in ginocchio. Era ben consapevole di non potersi permettere neppure mezzo passo falso nella disperazione, altrimenti quella avrebbe inghiottito anche me, e dunque noi due, per intero. Allora forse il malato, o quantomeno il paziente, ero io, io che l’aspettavo e l’accompagnavo senza nemmeno riuscire a proteggerla.
Nella primavera dell’anno successivo ci furono i primi segnali di miglioramento. Ad aprile si era ristabilita del tutto o quasi. Coi primi soldi del libro decise di affittare un piccolo appartamento sulla costa ovest. Era un regalo. Per me e per lei.
Restammo sulla costa fino a giugno. Eravamo solo noi due e qualche amico che di tanto in tanto veniva a trovarci.
Lei era viva, e contagiosa.
Quanto a me. È falso che ci siano persone incapaci di mettere radici. Chiunque, anche a un livello puramente inconsapevole, è impegnato a farlo. Persino nella più totale assenza di ambizioni o prospettive. Ed io ero così impegnato a mettere radici nel vuoto, in quel periodo: radici che avrebbero consumato la pianta stessa. Senza ambizioni o talento alcuno, ero un individuo molto pericoloso, più per me che per gli altri, come chiunque in una condizione del genere.
Tutto questo, a proposito di me, l’ho saputo dai suoi versi.
Ci siamo allontanati un giorno come tanti, sul finire del 1987. Rendo conto delle date perché certe storie necessitano di coordinate e dettagli precisi se vogliono risultare credibili o quanto meno di qualche utilità per chiunque si trovi ad ascoltarle.
Ad ogni modo, agli occhi dell’altro dovevamo apparire molto maturi: non tanto nel non ricercare un motivo per il termine della nostra relazione quanto nel non volerne in alcun modo giustificare la fine.
O forse era solo stanchezza. Ho parlato di un giorno come tanti, un giorno che non ricordo più. Così che non so neppure dove sia finita, non lo so quel tanto che basta per poterle augurare, ancora una volta: buona fortuna.