«Mi sarebbe piaciuto infilzare la notte sul foglio come una grande farfalla notturna.»
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Cos’è Il pozzo, racconto lungo o romanzo breve, se non lo sprofondare nel proprio esofago man mano che si smarrisce la voce? Scrittore fallito il Linacero del racconto, scrittore vero l’autore Juan Carlos Onetti, anche in questa prima prova, e prova ne è che il suo lamento ha la forza di farsi lascito (di Linacero, non suo). Non a caso è sempre la voce, il tono dei narratori di Onetti la componente più vitale del suo stile, anche mentre racconta la miseria, sia pur magmatica, di locande per marinai e prostitute, il disincanto di ogni rivoluzione, la disperata irriducibilità di una scrittura che non diventa romanzo mentre è già tradita dalla poesia. E così è Linacero, visitato in sogno da avventure e fatti che sgrana come un rosario di aneddoti; li accenna, non li scrive, non li sviluppa: ecco perché resta racconto – ma il romanzo, diceva Roberto Bolaño, non è che una successione di racconti legati l’un l’altro. Dunque avrebbe la chiave per schiudersi, Linacero, per non soccombere di fronte alla poesia di Cordes (Borges?), per diventare farfalla e non farsi infilzare come un pesciolino rosso nel suo laghetto dal raggio di luce lunare. Ma non può, e così attende la notte come un brucaliffo con la faccia da Céline, e borbotta il lamento accarezzando la farneticazione. Perché se pensi troppo alla scrittura senza praticarla (lo sa l’Ulises Lima di Bolaño, lo sanno Camus e Fante), dimentichi la vita e finisci nel delirio: «Lázaro è un cretino ma ha fede, crede in qualcosa. Senza saperlo, ama la vita e solo così è possibile essere un poeta». Della poesia, in Linacero (e in Onetti), resta la convinzione che i sentimenti, attraversando e toccando gli amanti per un istante di grazia (la fugacità in una permanenza di Cortázar?), siano più importanti delle persone. «Intendo dire: è assurdo che si dia più importanza allo strumento che alla musica».