Qualche giorno fa mi sono divertito a leggere i dati Svimez 2015 sul non-sviluppo (per usare un eufemismo) del meridione italiano. Soprattutto mi hanno divertito le opinioni fiorite in merito a destra e a manca. Ho voluto prolungare questo sadico divertimento immaginando cosa pensano della questione alcuni dei personaggi di cui ho scritto negli ultimi anni. Si tratta di esuli, per la maggior parte pugliesi, che conosco ormai a memoria. Ne è venuto fuori quanto segue.
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Vivo ormai da anni in Toscana, una splendida regione che mi ospita come la perla nell’ostrica. Non sto dicendo che sono una perla, ma di sicuro non c’è ostrica senza perla. Io non sarei io se non fossi qui, se non avessi lasciato il sud per venire qui. Per cui quello che penso dei dati Svimez 2015 ha a che fare con questo senso di sicurezza e di bellezza che la mia vita si è portata dietro. Ma non del tutto. Chi mi conosce sa che, ad esempio, continuo a scrivere sui quotidiani delle terre che mi hanno dato i natali, e sa anche con quanta rabbia io scriva. Forse, come dice Guglielmo Soga, dovremmo abbandonarci all’idea di essere stati abbandonati, farne un punto di forza per il rilancio del nostro meridione. A questo punto io sarei uno che ha abbandonato, però, e tuttavia mi sento anche abbandonato a mia volta dalla mia Puglia: altrimenti non sarei dovuto andar via, oltre trent’anni fa. Questo genera un senso di rabbia. E la rabbia, dispiace dirlo, la indirizzo contro la politica. Senza per questo alimentare un qualunquismo di dubbio gusto. Il discorso di Soga è incompleto: va bene fare dei propri limiti, della propria condizione limitata, un punto di forza, ma se la politica non ti segue? Se non è in grado di seguirti, di pensare un modello di sviluppo differente? Peggio, se è in cattiva fede e semplicemente non può seguirti, caro Guglielmo, perché per un’intera classe dirigente è sconveniente pensare a modelli di sviluppo alternativi? Temo le voci isolate, come la mia e quella di Guglielmo Soga, perché tendono al martirio oppure all’oblio. Come per la mia Puglia, ora più che mai.
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Franco Dannoso, docente
Il tema, a quanto pare, è l’opinione sui dati Svimez, prima ancora che il dato in sé. Questo è un problema. Il contrario dell’impegno non è il disimpegno. Ma il rischio è quello di sembrare disimpegnati se si risponde con un’altra domanda, con tono peraltro pacato (che mi si creda o meno): cosa vi aspettavate? Regge appena la Puglia, forse, dicono, ma non si sa se è vero. Bene, anche la Puglia è un posto di esuli. Via tutti, i figli chi doveva farli? Li fanno i lavoratori neri nelle campagne, nascosti finché non li stronca un colpo al cuore. Prendete la striscia di terra tra Taranto e Brindisi: tra l’Ilva e il petrolchimico abbiamo avuto solo tumori e lauree, lauree e tumori. I tumori degli operai e di chi ha vissuto dell’indotto sono serviti, oltre a comprare villini al mare e SUV, a fare in modo che i nostri figli studiassero. Ma una laurea non cura un cancro ben più esteso, neppure una in medicina. E in ogni caso è un gioco a somma zero, per cui la vita diventa un deposito della morte. Qui, dopo la rape culture insegnataci dai piemontesi nel passato, è andato avanti un secondo olocausto. Oggi diciamo che non è ne valsa la pena, ma lo diciamo da tempo e lo si è detto in tutte le forme. Forme sbagliate, questo è evidente, forme dello sfruttamento, soprattutto, nel momento in cui è chiaro a tutti che non hanno prodotto un’ulteriore forma di rovesciamento dello stato delle cose. Cosa vi aspettavate, allora? Adesso ci attende il deserto, i paesini sono già svuotati, forse li riempiranno gli africani, cambiando il nome alle vie, alle chiese, alle case. Prolifererà la droga, per sopportare questa terra, e perché fa guadagnare. Questo sud non sarà sud in eterno: diventerà confine, frontiera, terra d’attraversamento o di ripiego, almeno per chi vorrà restare per investire su un clima insopportabile, sul lavoro, poco, sfruttato e sempre più parcellizzato, e su grandi città che, nel tentativo di assomigliare a quelle del resto d’Europa, diventeranno del tutto simili a miniature di megalopoli africane o sudamericane. Se questo è disimpegno, allora temo che l’impegno vesta il suo sguardo di insipidi insaccati, d’importazione ormai anche quelli.
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Folco Mondo, critico
Giro il mondo ormai da qualche anno, lo faccio perché dubito di tutto e allora cerco conferma ai miei dubbi dappertutto, in attesa di riscontri o smentite. La tristezza dei dati diffusi l’altro giorno viene da una conferma. È chiaro. Quei dati dicono una cosa che sappiamo, che abbiamo sempre saputo, anche mentre andava avanti quella che potrebbe essere definita una specie di bolla culturale, quella della riscoperta di certi sud, che poi sono tanti e non sempre dialogano tra loro, e allora questa conferma ha la sola e ancora più triste novità di essere accostata a quella parola che non designa più un paese o una cultura, ma uno stato mentale: “Grecia”. Questi dati hanno bucato lo schermo, come si suol dire, perché hanno evocato uno spettro, e che spettro!, che non solo si aggira per l’Europa, ma di volta in volta ne affossa l’idea, la rilancia, la svuota di ogni significato, ci delude ancora… E noi in mezzo, a sentire le rimostranze di questo o quell’altro politico. Ma c’è poco da fare, si tratta di economia e poco altro. Salire definitivamente sul carro dei perdenti neoliberisti lo si fa per noia, per mancanza di sguardo alternativo, almeno credo, altrimenti non si spiegherebbero certi trattati internazionali, e poi tutta la vicenda Xylella in Puglia, ad esempio… In Puglia dove abbiamo dimostrato che con la cultura si mangia, altroché, non credete a chi dice il contrario, ma forse ci è mancato il coraggio di dimostrarlo fino in fondo, ed ecco la bolla degli ultimi dieci anni… E allora bisognerebbe decidere una volta per tutte se vogliamo stare davvero su quel carro là, per imitazione o, come detto, per noia o paranoia di restarne fuori, o provare a segnare per davvero una strada tutta nostra, per quanto in salita, tristemente in salita, forse più che in passato, anche se non l’avremmo mai detto.
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Stefano Dannoso, scrittore
Sì, i dati sono avvilenti. Ma è avvilente ogni avvenimento umano ridotto a dato, statistica, metafisica della concludenza a ogni costo. Sì, sono avvilenti, questi dati, ma immaginateli se avessero riguardo il nord, se li avesse ascoltati un milanese: avrebbe tirato dritto verso il lavoro, ad oliare imperterrito la macchina che sta costruendo e che lo strangolerà insieme alla sua famiglia, ai suoi amici, insieme a chi, in altri termini, fa con lui comunità. Noi meridionali invece tiriamo dritto, è vero, ma tiriamo dritto verso il nulla che c’era prima di quei dati e che ci sarà sempre. A volte facciamo tragedie, ma le facciamo cantando. Tiriamo fuori il demone così, per questo ne facciamo, di tragedie, soprattutto per questioni di lutto o d’amore. L’economia, quella finanziaria soprattutto, non ci incanta se non a metà, forse per un quarto soltanto. Noi viviamo così da sempre. Se soffriamo, e se soffriamo alla milanese, è perché ci siamo fatti contagiare. Ci siamo fatti illudere e ci siamo fatti abbandonare. Neppure sedurre, perché non siamo andati via con loro, non del tutto almeno. Prendiamo le stesse pastiglie degli occidentali ma soffriamo d’altro, questo sarebbe bene mettercelo in testa. Allora soffriamolo tutto, il nostro soffrire. Soffre solo chi s’offre, diceva un poeta, e noi questo abbiamo soprattutto: che sappiamo offrirci. Lo sanno i testoni che redigono certe classifiche e certe statistiche (non sono poi la stessa cosa?) e che vengono a fare le vacanze qui. Ripartiamo dalle sofferenze, quelle più nostre, e troviamo le terapie più adeguate. Una panchina a forma di onda, meglio se in legno, sul lungomare di Amalfi, mi cura più di mille pillole che mi suggerisce il medico (è uno che ha studiato a Parma, glielo dico sempre che ne risente). Il canto del cardellino mi ricongiunge a Gesù Cristo, lui sì depositario di un sacrificio spropositato ma giusto, colmo d’amore, e così gli uccelli notturni, in quanto rapaci, mi dicono che di notte si sta in guardia, che è normale non dormire e fare l’amore per non pensare al caldo, agli agguati, alle statistiche. Non siamo numeri, quando ero adolescente si diceva che c’era un modo di fare l’amore “alla milanese”, si diceva di certe signore che venivano in vacanza qui e sceglievano tra noi ragazzi del luogo i loro amanti. Era un amore senza amore, dedito alla simulazione degli amplessi, di un vuoto incolmabile e che queste signore usavano per riempire un vuoto ancora più grande. Potevamo vantarci, da bulli adolescenti, di aver avuto la turista, la signora coi bracciali: ma non restava niente, se non un cuore più vivido, ardente. Facciamo l’amore come sappiamo farlo noi, non alla milanese, allora. Ci hanno abbandonati, abbandoniamoci a noi stessi. La deriva non è un ripiego, come dicono certi giornalisti e professorini che non condividono queste tesi, la deriva è un’occasione. Smettiamo i panni dei terroni cercatori di visibilità, diamoci alla visione. L’unica esistenza che sappiamo è quella lirica, cantiamola. Le statistiche no, non sono spartiti se non per gli spariti: quelle funzionano solo se restano su carta.
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Guglielmo Soga, poeta
Nel 2050 avremo una regione desertica e abbandonata? Con le vecchie città ridotte a piccole comunità di consanguinei o creoli mischiati con slavi, arabi e africani? E quel sangue mischiato male e il calore ci faranno diventare pazzi del tutto? E queste comunità saranno delimitate e circondate da filo spinato perché nessuno possa entrare e uscire senza il permesso di amministratori che non saranno più emanazione di scelte politiche? E le scelte politiche, una volta dismessa la politica, diventeranno tendenze e paranoie religiose? I vecchi partiti e i movimenti, culturali o politici, diventeranno piccole chiese i cui adepti saranno disposti ad uccidere, pur di mantenere il loro minuscolo frammento di potere? La tecnologia digitale, avanzata come in tutto il resto del pianeta, non smuoverà di un granello di sabbia o di polvere la produttività di questa regione? Saremo costretti a vivere rinchiusi in casa, nelle nostre case isolate e lontane nel deserto, con un fucile sotto al letto per proteggere i nostri cari? Dovremo tornare ad essere pronti ad ammazzare per strada, anche solo per difendere il nostro onore? D’accordo. Non capisco la differenza col passato. Però ho una certezza: produrremo ottima letteratura.
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Nero Desideri, scrittore segreto