«La lotta era silenziosa, d’agguato, precisa, senza un grido né un lamento. Colpivano a morte o a ferirsi nei punti più vivi, con i piedi, con i manganelli, con i denti, con i pugni, intenzionati a strappare gli occhi e farsi scoppiare i testicoli. Gli sguardi, gli atteggiamenti, la respirazione, il calcolato movimento di un braccio, l’avanzare o il retrocedere di un piede, consacrati interamente alla tenace volontà di un solo e univoco fine implacabile, trasudavano morte nella sua presenza più completa, più incredibile.»
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Non esisterebbe violenza su questa terra, se non fossimo ancora in grado di riconoscere la grazia, gli spazi – anche quelli minimi – di libertà, in cui l’umanità è ancora in grado di affiorare come gramigna su un muro di pietra. Più che la claustrofobia del carcere di massima sicurezza messicano de Le scimmie, dunque, più che la miseria dei suoi tre protagonisti, dei loro stratagemmi per procurarsi la droga dall’esterno, più che il mescolarsi tra scimmie, nell’annullamento del confine tra guardie e prigionieri – più di tutto questo ci graffia, da lettori, il ricordo di ciò che di umano carnale e sublime c’era fuori da Lecumberri, delle pulsioni più terrene e passionali, non ancora o non del tutto annullate dalla bestialità della detenzione, dalla droga, dallo stupro della confusione tra secondini e tossicomani. Perciò è terrificante lo stile di José Revueltas, che non si tira indietro e tira fuori quanto di più crudo e insieme raffinato uno scrittore possa distillare dalla mischia della merda della macelleria messicana. Nei suoi periodi lunghi, sterminati, piani sequenza in cui orrore e poesia si mescolano fino a sviluppare una pellicola letteraria di raro pregio – dico pellicola e non tessuto, che richiamerebbe un lusso impossibile – Revueltas lascia nidificare lo sconforto che certe cose siano accadute (cose che riconosciamo perché la tortura è tale in tutto il mondo) e il conforto che ci siano uomini che hanno il fegato e la grazia di raccontarle. Non sappiamo se sia consolazione, questa, o fiducia per l’ipotesi che se un essere umano sia riuscito a partorire Le scimmie, allora l’intera nostra razza potrà smettere di progettare violenza.
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