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Questo articolo è uscito ieri (17 marzo) sulla rivista Una casa sull’albero.


Ammettiamolo: essere la Marvel non è affatto semplice, in questo inizio millennio, con tutto quell’universo di personaggi, eventi, fan e mezzi espressivi da tenere insieme; e non lo è neppure essere un supereroe, con tutto ciò che di incredibile, in termini di ingiustizia e violenza, succede in giro per il mondo. Figuriamoci allora essere Daredevil, l’uomo senza paura che dell’universo Marvel è sì una delle figure più affascinanti, ma anche la più delicata: un eroe a cui è non stato dato un superpotere ma tolto, addirittura, uno dei cinque sensi (e cioè la vista, come sappiamo).
A rendere tutto meno complicato ci ha pensato tuttavia Netflix producendo, lo scorso anno, Marvel’s Daredevil, serie tv apprezzatissima da critica e pubblico, la cui attesa seconda stagione verrà rilasciata in blocco proprio domani oggi (18 marzo). Mentre sappiamo già che di questa seconda uscita faranno parte personaggi storici come Elektra e il Punitore, proviamo a capire perché la prima stagione ha colpito così a fondo l’immaginario di tanti appassionati, ma non solo.

Le cose stanno grossomodo così: ogni notte il giovane e cieco avvocato newyorkese Matt Murdock si sintonizza col quartiere di Hell’s Kitchen attraverso gli altri sensi, che ha ipersviluppati (soprattutto l’udito e l’olfatto), prima di partire per la sua ronda da vigilante notturno. Il tutto si complica quando la vita diurna di Matt comincia a intrecciarsi con questa sua attività segreta – quando, cioè, il folto dello gnommero in cui si aggrovigliano microcriminalità e potere finanziario intorno al quartiere comincia a farsi particolarmente denso.

A posteriori appare chiaro che Daredevil era un’occasione piuttosto ghiotta per farci una serie tv: per metà eroe menomato (e dunque vicino alla rappresentazione umanizzante che in un modo o nell’altro ci si aspetta ormai da ogni emanazione del filone) e per metà avvocato, in un mondo – quello delle serie tv – in cui il genere avvocatesco è oramai una vecchia istituzione. Ma l’equilibrio raggiunto dalla prima stagione dedicata al diavoletto va ben oltre questi due ingredienti: perché da un lato tutti i caratteri di Marvel’s Daredevil appaiono umani e profondi, e da un altro il filone alla Law & Order (così come quello supereroistico) è semplicemente la cornice entro cui si svolgono le vicende del diavolo di Hell’s Kitchen.
Insomma, Daredevil è soprattutto un noir ben confezionato che prende il meglio delle trasposizioni di comics su grande e piccolo schermo degli ultimi anni, evitando con cura tutte le bucce di banana che altrove ci hanno fatto gridare al capolavoro mancato (mi riferisco a certi intrecci e soprattutto ai finali dei Batman di Christopher Nolan – anche se lì siamo sul versante DC Comics – tanto per non far nomi).

Dunque: per avere un noir è necessaria la perturbazione, che poi si scopre essere persistente, di un ambiente che si presenti, almeno all’inizio, come pacificato. La corrottissima Hell’s Kitchen, da quello che apprendiamo dai flashback di Matt e di altri personaggi, non è mai stata un posto tranquillo, ma certamente le mire del villain della serie Wilson Fisk contribuiscono a creare la perturbazione iniziale e a rendere più cupo e inquietante il quartiere.
È altrettanto necessario, ovviamente, che il pubblico scivoli piano in questo fosco maelstrom di insondabile mistero; e così ci addentriamo gradualmente in spazi bui in cui spiccano, al massimo, colori netti e in aperto contrasto tra loro come negli spicchi delle vetrate di una cattedrale gotica: il nero della notte di Hell’s Kitchen, il bianco dei dipinti a cui si appassiona Fisk, il rosso porpora del sangue della sigla, fino alla messinscena di un quartiere-mondo in cui ogni interno (per quanto oscuro, saturato o seppia) appare comunque un rifugio, anche per noi che guardiamo, dalla corruzione e dalla violenza che nidificano tutt’attorno.

E ovviamente anche la violenza, il crudo realismo con cui è rappresentata, fanno parte dell’atmosfera in cui è ci è chiesto di scivolare, tanto che arrivati a metà della prima stagione (tredici episodi, lo diciamo solo ora, da circa un’ora ciascuno, da guardare in blocco come un lunghissimo film) ci chiediamo se i produttori non abbiano deliberatamente deciso di metterci di fronte a un sadico spettacolo di gore senza rimedio – niente ironia alla Tarantino, e nessuna pacchianeria da Grand Guignol a preservare il nostro sguardo. È tuttavia sufficiente proseguire nella visione per capire che la scelta – a tratti al limite del pornografico, va detto – di mostrare ogni taglio, ogni costola rotta e persino ogni decapitazione ha, con tutta probabilità, ben due motivazioni: da un lato, metterci a parte della pericolosità della vita nel quartiere, e da un altro calarci in un contesto quanto mai credibile – in fondo, i duelli tra vigilanti e bande di criminali non dovrebbero essere proprio questo, e cioè delle risse da strada piuttosto lunghe, estenuanti e sanguinolente? Lo splendido piano sequenza del secondo episodio vale, in questo caso, più di qualsiasi tentativo in prosa*:

Come in questo esempio, anche la colonna sonora ridotta al minimo, presente quasi esclusivamente in apertura, sottolinea la scelta di avvicinarsi a una sorta di estetica da angoscioso realismo – così come la gestione del tempo nel corso di ogni singolo episodio: flashback autoconclusivi a parte, la durata degli eventi rappresentati tende in alcuni casi a coincidere col minutaggio della puntata, e i piani temporali – in controtendenza rispetto a molto cinema e a molte serie contemporanee – raramente vengono scombussolati; il mistero trae così origine esclusivamente dall’ambiente e dal suo racconto, nell’ombra e nel rispecchiamento quasi metafisico del quartiere (parafrasando un maestro della perturbazione come lo scrittore Thomas Ligotti).

E così, quando l’assurdo tasso di violenza ha raggiunto il culmine e noi spettatori abbiamo realizzato di esserci ormai stabiliti tra i vicoli di Hell’s Kitchen, ecco che cominciano a prendere piede altri elementi che ancor di più ci sprofondano in questo nero assoluto e senza scampo.
Prima di tutto, il rapporto e l’interazione tra i personaggi: e dunque i dialoghi, in cui gli attori – tutti, ma davvero tutti, è un torto citare solo il Wilson Fisk del disturbato Vincent D’Onofrio, ma l’elenco sarebbe lunghissimo – danno il meglio, senza gigioneggiare troppo e adattando il classico giochetto da serie tv, fatto di scambi rapidi e battutine tutte eufemismi e metafore, a quella che in fondo si configura pure come una tragedia.
Ci sono poi le opposizioni tra i caratteri: qui citiamo soltanto quella tra Murdock e Fisk, che per la maggior parte si consuma a distanza, a partire da quel comune intento – liberare il quartiere dal male – declinato tuttavia con mezzi differenti: quasi a dire che il male (o il bene) non esistono, esiste solo un approccio differente per raggiungere un beneficio che sia vantaggioso per quanti più contribuenti possibile.

A questo punto, insomma, volenti o nolenti ci siamo dentro fino al collo, e non possiamo esimerci dal continuare a guardare, perché – altra scelta intelligente – il grosso dei personaggi, a metà stagione, è ancora tutto da approfondire. Pian piano cominciamo a conoscere Wilson Fisk e il suo passato di violenza, la sua sensibilità artistica e il suo amore per Vanessa – il vero elemento che scombussola gli equilibri di tutta la vicenda e dà avvio alla perturbazione della perturbazione –, e ancora le vicende private di Karen Page e del giornalista Ben Urich, il sentimento di solidarietà, che potrebbe essere amore, tra Matt e l’infermiera che lo ricuce dopo ogni scontro, il rapporto dello stesso Matt con il cattolicesimo e col vecchio Stick… Tutto questo dimenticandoci di essere alle prese con una storia di supereroi: anche perché non vi sarà traccia di alcun costume pittoresco prima dell’ultima puntata.

Fino alla fine, insomma, la serie Netflix (curioso parlarne come se fosse un autore) insiste soprattutto sulla plausibilità e sulla credibilità: Wilson Fisk, al pari degli altri villain intermedi – russi, giapponesi e cinesi – non è un semplice picchiatore, quanto un fine intenditore di finanza e urbanistica con tanto di consulenti e prestanome; la stessa comparsa in città del diavolo è assimilata all’emergere di un nuovo gruppo terroristico (non è quello che penseremmo anche noi, se arrivasse davvero un supereroe in città?), e da un certo punto in poi Matt Murdock dovrà seriamente fare i conti con l’opinione pubblica (e sarà questa a tirar fuori il suo nome di battaglia). Ancora, va in questa direzione anche la già citata scelta di non mostrare da subito il costume con cui siamo abituati a immaginare Daredevil, optando per un’ordinaria maschera di pezza, un maglione con qualche rinforzo e un paio di jeans (omaggio, va detto, al costume indossato da Murdock in uno degli episodi a fumetti scritti da Frank Miller).

Tutto procede in verticale, dunque, lasciandoci inabissare in una spirale di violenza fisica e sociale – in fondo, quello che Fisk desidera è riqualificare il quartiere favorendo la più classica gentrificazione, con la conseguenza di portare la feccia, ovvero gli indigenti, lontano dalla zona – che ha però pure qualcosa di obliquo: nel senso che nel quartiere-mondo qui rappresentato percepiamo la stessa inquietante eco che risuona nell’irrimediabile mondo di violenza e sopraffazione in cui, ahinoi, abbiamo la sensazione di svegliarci ogni giorno. Tant’è che a fine prima stagione è difficile farsi convinti che la corsa criminale (e mediatica) di un uomo come Wilson Fisk sia poi davvero arrestabile dall’incrocio tra le intuizioni di un ufficio legale alle prime armi, i risultati di un’inchiesta giornalistica e le azioni di un vigilante solitario; tantomeno riterremo che la gentrificazione del quartiere prefigurata da Fisk (davvero di questo si tratta, in fondo) sia stata scongiurata per sempre.

Insomma, dopo quasi tredici ore di visione il miracolo sembra essere compiuto: l’equilibrio tra intrattenimento (per adulti), interpolazione con la contemporaneità fuori dalla rappresentazione seriale, creazione di un’atmosfera e plausibilità del racconto supereroistico c’è tutto, in Marvel’s Daredevil. Verrebbe da pensare che un risultato simile sia raggiungibile solo quando ci si tiene al riparo dalle paranoie di budget e botteghino imposte dalle superproduzioni cinematografiche; ma questo potrebbe essere un pregiudizio, e solo nei prossimi giorni sapremo se almeno quest’equilibrio estetico perdura, nella perturbata Hell’s Kitchen.


*Eppure, per deformazione professionale, devo suggerire che c’è almeno un libro in cui si riesce a tradurre in parole queste stesse sensazioni fisiche da lunga e faticosa colluttazione: si tratta del romanzo breve Le scimmie di José Revueltas, pubblicato in Italia da Sur Edizioni. Consigliatissimo, almeno quanto Marvel’s Daredevil.