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Non c’è opera di poeta o scrittore di racconti che, presa nella sua interezza, non sia consultabile come un romanzo. Se non è così, allora quel poeta o quello scrittore di racconti non è un vero poeta o scrittore di racconti. Molto semplice.
Sarà pur vero il contrario: e cioè che un romanzo è una concatenazione di racconti messi uno accanto all’altro, e che la poesia consiste soprattutto nel raccordo, nel montaggio che li tiene insieme. Io non ci credo, o forse non mi sono mai posto il problema. Perché non ho mai scritto poesia: la trovo mistificante e volgare. Ricattatoria. Come un film in cui fanno recitare bambini o animali che devono passare attraverso diverse sofferenze prima di diventare adulti o essere in salvo al di là del fiume, dove non c’è civiltà umana che possa addomesticarli e mortificarli.
Mi sembra che la poesia sia come il judo. Affermando questo, sono ovviamente consapevole che anche la poesia possa avere a che fare con la grazia e con la tecnica. O meglio: con la tecnica che conduce alla grazia. Ma mi sembra anche che questo sottintenda un grande sforzo e un allenamento fine a se stesso, e io non ho tutto questo tempo per allenarmi. Preferisco le risse da strada.
Il romanzo è una lunga rissa da strada. Una colluttazione tra sconosciuti senza né capo né coda. D’accordo, puoi sederti a tavolino e progettare una struttura. Questo se vuoi pubblicare un romanzo all’anno. Ma non parlo di quei romanzi. Quelli non sono romanzi. Sono sceneggiature mancate.
Il romanzo è confusione e la vita è confusione. Non è un patto col caos. Forse per il lettore lo è, ma è meglio che anche il lettore se ne stia al riparo da tutte queste chiacchiere e che non s’illuda troppo.
E poi pensateci: non c’è scrittore di racconti o di poesia che non abbia pubblicato almeno un romanzo, per potersi garantire un futuro (soprattutto un presente) da scrittore di racconti o poeta.
In ogni caso la poesia è un grande equivoco che miete molte vittime. È la stessa cosa che diceva Mingus a proposito del jazz. Quanti musicisti neri hanno perso la vita dietro al jazz, dietro all’illusione di piacere ai bianchi grazie a quella musica che loro, i neri, e non i bianchi, avevano creato? Quando avrebbero potuto essere degli onesti esecutori di qualsiasi musica bianca e vivere sereni.
Ecco, un romanziere è un esecutore. Un servo intelligente. Per essere romanzieri non occorre chissà quale intelligenza e neppure quella spiccata sensibilità poetica che ti fa soffrire come un prigioniero politico il primo giorno di golpe in un paese qualsiasi dell’America Latina. Per essere romanzieri bisogna essere dei duri, questo sì, per mettersi seduti ogni giorno e buttare giù quelle quattro o cinque pagine che allungano la vita ai tuoi eroi. Basta questo, e non è poco.


Giovanni Scandia | Vite controvento