«Spegni il computer e vai a dormire.»
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Un ragazzino vestito come un damerino che vuole diventare un temibile pirata. Un temibile pirata non-morto che potrebbe essere tuo fratello, e nel frattempo cerca di rubarti la fidanzata. Venditori di navi che sembrano usciti da una concessionaria di auto usate di un film dei fratelli Coen. Naufraghi inutili, signore voodoo, gare di sputo, cannibali con teste di limone e soprattutto: scimmie a tre teste.
Parlare di The Secret of Monkey Island e Monkey Island: LeChuck’s revenge pone, prima di tutto, una necessità: quella di considerare i primi due capitoli della saga ideata da Ron Gilbert – con l’aiuto di Tim Schafer e Dave Grossman – come un’opera unica. Un videogioco che è forse uno dei romanzi di mare (ma non solo) più importanti e intensi apparsi sul finire del secolo scorso.
Credo che tutto quello che so di narrativa e letteratura me l’abbia insegnato, da bambino, quest’avventura punta e clicca. Prima di tutto perché si tratta di una classicissima storia mozzafiato: ci sono i pirati e il senso dell’esplorazione, venato d’umorismo grottesco, tipico della letteratura per ragazzi e dei blockbuster hollywoodiani anni ’80 – non a caso, Gubybrush Threepwood, Luke Skywalker e Indiana Jones sono tutti figli di una Lucas Arts non ancora disneyzzata; in secondo luogo per l’architettura di entrambi i capitoli, che mescolano il classico gusto per l’intreccio e il romanzesco con la parodia di strumenti narrativi più o meno canonici (abbondano anacronismi, flashback esagerati, riferimenti extradiegetici, colpi di scena demenziali).
E infine per i rimandi interni, che nel tempo hanno creato una comunità di lettori/videogiocatori per poi allargarne gli orizzonti verso tutta la produzione Lucas di quegli anni (che va da Loom e Maniac Mansion fino a Sam&Max Hit the road e oltre).
Ma su tutto trionfa l’atmosfera. Come posso spiegare a chi non ha mai giocato a Monkey Island di aver avuto l’impressione di essere stato davvero nei boschi di Mêlée Island a cercare il Maestro della Spada o a sfidare improbabili pirati con le magliette a righe in altrettanto improbabili gare d’insulti? Di aver passato dei meravigliosi giorni di crociera insieme a Guybrush, Otis e compagnia su quella nave in rotta per Monkey Island?
Come si può raccontare lo stordimento che derivava dall’inafferrabilità del segreto di Big Whoop?
Il punto è (anche) che la saga di Monkey Island arrivava, nel 1990, in un momento in cui i videogiochi (e in generale tutto il mondo dell’informatica) erano ancora un fatto fisico, non ancora smaterializzato: ci giocavi su un cassone un po’ più ingombrante di una tv; con la differenza che, al contrario dei programmi televisivi, quelli che si chiamavano ancora giochi rappresentavano la prima esperienza immersiva nella storia dell’intrattenimento umano. E immergersi in Monkey Island significava scivolare in un universo sterminato, con un suo funzionamento, una sua geografia, dei rimandi interni – per quanto giocosi e ironici – del tutto coerenti, una sua epicità e una colonna sonora che teneva tutto insieme come in un film.
Come posso spiegare, insomma, che quando poi ho letto L’isola del tesoro o Moby Dick o visto Pirati dei Caraibi ho avuto la certezza di essere già stato in quei luoghi? Come posso spiegare una cosa fondamentale, e cioè che l’umorismo di Monkey Island, a differenza di quello compiutamente postmoderno di fine anni ’90, prendeva in giro qualsiasi tipo di forma racconto (e dunque il nostro modo di raccontare anche la vita moderna) senza però corroderne le fondamenta, al contrario rilanciando verso un regno di immaginazione e fantasia ancora fertili?
Come posso spiegare a un videogiocatore moderno che i pixel di quelle facce piratesche sono l’equivalente di un’iscrizione monca su una tavoletta d’argilla ritrovata in uno strano sito archeologico interiore, e che non siamo semplicemente nel campo del più nostalgico retrogaming quanto in quello, decisamente più leggendario, del racconto collettivo?
Sapete, il fatto è che non ne ho idea e non ho neppure voglia di provarci. Non si spiega la propria storia, che è sempre un rivolo o l’affluente d’altre storie più grandi; al massimo la si racconta.
Ad oggi, per me non c’è open world che risulti attraente e credibile quanto quello, tutt’altro che infinito, di Monkey Island; non c’è passeggiata per le strade di GTA o delle Città Invisibili che non richiami le mie scorribande per Dinky Island. Ogni volta che rimetto piede da quelle parti è come tornare sulla spiaggia che frequentavi da bambino con tutta la famiglia; e ogni volta che su quella spiaggia soffia un vento caldo e infernale finisci col pensare, proprio come il pirata LeChuck, che è in giorni come quelli che bisogna ringraziare d’esser morti.
Ogni volta che ripenso a quei nomi strani e sonori come Guybrush Threepwood, Fester Shinetop, Largo LaGrande, Herman Toothtrot, Elaine Mairley… Ogni volta che torno al finale aperto del secondo episodio, dunque alla scoperta del segreto di Big Whoop – un parco giochi alla George Saunders, diremmo oggi, che cita quello di Pirati dei Caraibi che ispirò Ron Gilbert, tanto per chiudere il cerchio disneyano – ho la sensazione che quell’inframondo in cui convivono pirati vivi e morti, scheletri che ballano sotto un albero infernale e scimmie a tre teste sia uno scherzo infinito e serissimo; il più bell’inno al regno della fantasia che io abbia mai incontrato.
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