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«Perché a questa gente interessa il fuoco?»

L’ossessione è una fiamma bassa su cui cuoce piano, in una pentola d’ottone sbrecciato, un piccolo cervello di scimmia. Ogni tanto qualcuno, si suppone una mano invisibile di scheletro altrettanto scimmiesco, alza la fiamma e l’ossessione brucia più intensa.
Ultimamente, a me brucia un’ossessione legata a certi documentari d’autore, diciamo quelli che vanno sotto l’etichetta di docu-fiction, di cui è alfiere e involontario generatore di epigoni quel Gianfranco Rosi già da molti inchiodato al rango di maestro.

Posso forse dire che Rosi, la sua arte non mi seducano? No, ovvio. La sua fotografia sexy, minimale, la sobrietà del testo, i suoi dialoghi, comunque sceneggiati e però normali, lo sguardo sui personaggi – perché tali sono, le bestioline raccontate ad esempio in Sacra GRA ma anche in Fuocoammare (per quanto una simile definizione qualche problema finisca col crearlo, se si parla dell’odissea di migranti e non di semplici outsider di periferia ultraurbana) – dubito che si possa resistere a tutto questo.

Succede però che a fine visione mi prenda un dubbio, un’inquietudine che via via razionalizza emozione e rimpianto, e penso: da buon naturalista, il regista si è nascosto dietro un muro o un cespuglio per riprendere indisturbato, o almeno questo è stato il suo intento; fatto sta che mi sembra invece d’averlo scorto benissimo, che l’eliminazione dal contesto sia in parte fallita proprio sotto i colpi di un’estetica forte, ben calibrata; concludo che il punto di osservazione è sempre parte del contesto, della natura del contesto, della sua fauna, e che proprio la parte di fiction (fotografia e montaggio da favola, per dirne due) finisca col mangiarsi la parte del docu: dunque fallisce ed è posticcia quell’impressione di stare ad altezza-persona – col senno di poi, vedo Gianfranco Rosi fluttuare metri e metri sopra le vite che racconta, il Leone d’Oro ben stretto al petto, che non lo appesantisce di un grammo.
Concludo (stavolta davvero) e mi chiedo: è in qualche modo addirittura immorale, soprattutto nel caso di Fuocoammare, tutto questo?

Esagero, d’accordo: però poi c’è Werner Herzog e il suo Dentro l’Inferno, appena rilasciato da Netflix.

Ammetto di non essere un grande esperto del cineasta tedesco. Mi fa però simpatia il suo approccio estremo e muscolare al cinema; mi fanno simpatia le sue ossessioni – e il punto è questo: io so cosa anima Werner Herzog, e lo so perché il suo punto di vista è aperto, dichiarato.
Non voglio appesantire, bollire questo mio cervello e il vostro troppo a lungo mettendo in mezzo, dopo il requisito morale, anche la presunta onestà di certo cinema: ma mi è parso di capire che in molti plaudono a Rosi proprio per via del suo supposto sguardo sincero. Se però, come detto, le sue opere sono rese finte – non false – proprio dagli strumenti della fiction, mi sembra invece che Herzog, proprio in Dentro l’Inferno, riesca a mandare a gambe all’aria tutte queste chiacchiere, lui sì con onestà – o meglio senza porsi neppure il problema, ovvero essendo semplicemente se stesso.

Dentro l’Inferno è un tour muscolare, appunto, di un’ora e quarantasette minuti per i più pericolosi vulcani della terra, da Vanuatu alla Corea del Nord passando per Africa e Islanda; un intenso viaggio alla ricerca dei miti nati alle pendici dei vulcani, un discorso attorno all’apparente stridio di questa mitologia di spiriti, distruzione e rigenerazione a contatto col materialismo e il razionalismo comunque curioso di Herzog – che non a caso gira insieme al vulcanologo inglese Clive Oppenheimer, con cui aveva già indagato i vulcani in passato.

Le immagini di Dentro l’Inferno – potenti, soprattutto quelle ravvicinate a scrutare l’incessante lavorio di magma e lava nell’occhio del camino – si alternano a interviste a indigeni, archeologi, santoni, carpentieri, ricercatori, altri vulcanologi.

Ci accompagna costante in questo viaggio proprio la voce di Herzog che racconta, pone e si pone domande, parla persino di sé: una voce che non fa segreto di esserci, di essere presente, di farci presente che quella cui assistiamo è la sua ricerca, cioè quella di un ateo che non pretende di risolvere o svelare alcunché, né intende dimostrare nulla – né le sue tesi sul rapporto tra uomini e vulcani, né un’idea particolarmente cool di cinema, di spettacolo per gli occhi.

In generale, Dentro l’Inferno è un dialogo intelligente con lo spettatore – ovvero: che non dà dello stupido allo spettatore, fiducioso che possa farsi un’idea da sé attraverso uno sguardo che non viene mai solleticato in maniera seducente o morbosa; la tecnica e l’estetica seguono questo stesso impianto: la fotografia di Peter Zeitlinger non prende mai la scena per sé, impressionando quando deve, soprattutto al cospetto di un’eruzione, e facendo un più umile lavoro quando deve semplicemente seguire un dialogo. Mai spartana e mai troppo in estasi, insomma – nessun festival della tecnologia cinematografica – lascia pure il passo a immagini di repertorio granulose e sfocate, paradossalmente le più drammatiche: specie quelle dei due vulcanologici francesi a contatto con dei veri e propri dragoni di lava, gli stessi che li avrebbero poi investiti e uccisi in Giappone in un’eruzione con conseguente frana da 160 chilometri all’ora.

Un dialogo, ovviamente, prevede pause e divagazioni, che pure sostengono la struttura e la visione fortemente asimmetrica di Herzog. Veniamo così a conoscenza del culto del cargo, appresso al quale alcuni indigeni di Tanna attendono il ritorno (dal vulcano) di un messia-soldato americano che porti beni di consumo occidentali come premio alla preghiera; ci incantiamo ascoltando lo stesso Herzog che legge il poema, sacro e fondante, degli islandesi – opera unica al mondo, che profetizza la fine non degli uomini ma degli dei per volere del vulcano; ci divertiamo al seguito di un archeologo yankee decisamente sopra le righe, per cui la ricerca delle ossa dei primi Sapiens in Africa è assimilabile a una puntatina notturna a Las Vegas; infine, ci infiliamo in un documentario nel documentario quando la camera si sposta in Corea del Nord.

Proprio questa parte di Dentro l’Inferno ci dice qualcosa in più dell’indagine e dello sguardo di Herzog. Qui, intanto, la sua voce – un po’ stanca, un po’ di ruggine tedesca in salsa anglofona – esprime senza remore le sue riserve circa lo stato apparentemente distopico di Pyongyang, ma allo stesso tempo è capace di stupore di fronte alle celebri e spettacolari coreografie dedicate al caro leader e a certa iconografia che, in fin dei conti, non fa che avvicinare la nascita del mito coreano a quella di qualsiasi altro ceppo narrativo-religioso.

Ma qui, soprattutto, realizziamo quanto Herzog abbia fatto tantissimo col poco che aveva a disposizione, ovvero con l’occasione – che difficilmente avrebbe potuto ripetersi – di visitare la Corea e di raccontarla, in pochissimo tempo, proprio a partire dal mito del monte Paetku che racconterebbe l’origine divina del caro leader (mito, e conseguente afflato mistico, che non viene approfondito invece in un altro documentario, sia pure ben riuscito, come The propaganda game); col rischio, che solo chi è saldo nella propria visione autoriale può prendersi, di deviare non poco dalla materia principe del documentario.

E dunque, tornando alla polemica iniziale (ovviamente un po’ forzata: tempo fa avevo parlato in altri termini proprio di Fuocoammare), e per andare oltre: con la sua ricchezza espressiva, Werner Herzog ci ricorda che l’estetica non è tutto e che ogni volta che accendiamo una camera o posiamo una penna sul foglio stiamo dando vita a una rappresentazione, a una possibile messinscena; tanto vale fare a meno di celarsi o tentare un’improbabile approccio mimetico: lo spettatore non è fesso e saprà scovare gli angoli in cui l’autore è andato a nascondersi o il camuffamento che ha adottato per meglio registrare la vita altrui. Perché la vita, la condizione universale che rappresenta è anche, soprattutto, la sua.