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Pare che il morbo delle liste di fine anno sia ormai diffuso, assolutamente indebellabile, su blog, riviste e siti di ogni genere (avendo appena inventato la parola indebellabile, proporrei anche una bella lista di parole inventate – cosa ben diversa dai neologismi, ovviamente).
Ammetto, in ogni caso, di essermi lasciato prendere anch’io da questa moda, e che tutto sommato la cosa non mi dispiace: la classifica, più o meno lunga, è un genere che si produce in verticale e questo l’avvicina, perché no, a certa poesia tragica e oscura, da aedo rimasto imprigionato nell’Ade (per citare Charles D’Ambrosio, di cui dirò di più tra qualche riga).

E così, se a dicembre scorso avevo segnalato i miei due libri dell’anno sul mio profilo Facebook, quest’anno ne ho consigliati tre in un episodio del mega listone a puntate di minima&moralia.
Dunque, prima di passare alle tre letture di un certo anno in cui le liste non erano affatto così diffuse, ripropongo qui le tre opere segnalate su m&m (che sono cinque, in realtà), così ci togliamo il pensiero anche su Malesangue, per una volta.

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Ciondolare tra i saggi raccolti in Perdersi di Charles D’Ambrosio significa seguire i solchi di una scrittura profonda, alle prese, soprattutto, coi riflessi pavloviani del discorso pubblico occidentale. Una profondità, però, tutt’altro che dedita all’abisso, quanto razionale e poetica, come per un Orfeo tornato dall’Ade senza indulgere nel suo, di tic: con Euridice ancora al seguito. Tre linee narrative ricorrenti (il rapporto col padre, quello col fratello schizoide e con l’altro suicida) fanno di quest’opera quasi un romanzo.

Le cose che non facciamo è una raccolta di racconti che Andrés Neuman e Sur edizioni hanno assemblato, con intelligenza, appositamente per il mercato italiano. Dentro c’è di tutto, come in una busta a sorpresa: amore, follia, morte delle persone amate, picchi surrealistici e persino una serie di dodecaloghi per la stesura di racconti (che l’autore chiama, a ragione, “saggi ludici”). Per il sottoscritto è un libro magico: ogni volta che lo apro, anche a caso, mi regala qualcosa di inedito, una colomba bianca che se ne sta appollaiata sul mio dito di lettore trasformato in mago, a mia volta, dalla scrittura di Neuman.

A proposito di editoria intelligente, infine, va segnalato il cofanetto, approntato da NN Editore, che contiene i tre volumi della trilogia della pianura di Kent Haruf. Sui romanzi si è detto già tutto: un’epopea di asprezze e tenerezze ambientata nella cittadina immaginaria di Holt. Il cofanetto, l’idea stessa di un regalo così prezioso per i lettori, con tanto di mappe dei luoghi della città creata da Haruf, mi pare sublime.

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E siamo al 1996.
Perché proprio il 1996? Be’, intanto perché sono passati esattamente vent’anni da allora. E poi perché nel ’96 sono successe un sacco di cose. Una fra tutte: ho letto il mio primo serio libro di narrativa – o forse è stato il primo libro di narrativa che ho letto seriamente, data anche la sua lunghezza e complessità.

Cosa leggevo, prima di questo romanzone? Fumetti, sicuramente. E poi giocavo ai videogiochi. E guardavo film e serie tv: tra queste, soprattutto Friends, Dawson’s Creek e Flash (in quest’ultima, già vista nel 1992, il papà di Dawson interpretava il supereroe eponimo, generando non poca confusione nel me adolescente di allora).

E dunque, per la prima posizione della lista delle letture del 1996, inizierei proprio dai fumetti. Ce n’era uno, già letto da bambino, che riuscii a tirar fuori da chissà quale scatolone – per poi riperderlo – proprio quell’anno: si chiamava Topolino e il mistero dell’uomo nuvola e lo aveva scritto e disegnato Floyd Gottfredson. Era un albo orizzontale, da strisce domenicali, di cui ricordo soprattutto l’atmosfera fumosa, di vapori leggeri, a tratti – ma potrei sbagliarmi – quasi uno steampunk per bambini. Mi restò impresso come quando l’avevo letto qualche anno prima, in quel modo vago ed eccentrico di tutto ciò che ti forma a un livello puramente inconscio e che non saresti mai in grado di recuperare a un livello, diciamo così, più intellettuale. I disegni di Gottfredson, del resto, mi avevano già catturato da bambino: il suo Macchia Nera – in non ricordo quale numero ordinario di Topolino – mi terrorizzava, letteralmente.

Seconda posizione, quindi, per un videogioco, o meglio per il suo libretto di istruzioni, cioè quello di FIFA96: me lo portavo anche a scuola, per dare un’occhiata fugace alla copertina coi giocatori di Olanda e (credo) Irlanda. A dirla tutta, il libretto in sé non aveva alcuna utilità pratica – non c’era nulla di fondamentale sul gioco che non potessi imparare direttamente giocandoci – a parte darmi la sensazione di portarmi appresso il CD-Rom anche quando ero lontano dal computer e continuare a infondermi, rilasciandolo in piccole dosi, il desiderio bavoso di tornare a giocarci subito dopo pranzo – FIFA96 fu, peraltro, tra i primi giochi di calcio davvero godibili in quello strano 2D e mezzo che all’epoca chiamavamo 3D.

E siamo così al romanzo.
Dai dieci ai quattordici anni i miei genitori – persone molto liberali su ogni fronte, per quanto riguardava la mia educazione – hanno tentato in tutti i modi di farmi leggere anche solo mezzo libro della loro sterminata biblioteca. Niente, non c’era verso. La lettura mi annoiava. Allora provavano coi libri da cui erano tratti i film che guardavamo insieme. Con Bigfoot, a inizio anni ’90, andò malissimo, per fare un esempio. Poi però arrivò Jurassic Park.
Ovviamente, qualche anno prima, da bambino, avevo amato il film. In quel 1996, per non so quale strana ragione chiesi a mio padre di prendere il libro. Forse già all’epoca subivo il fascino dei libri ben confezionati, e quell’edizione – Garzanti, 1993 – era davvero notevole. Il resto lo fece la voce precisa e coinvolgente di Michael Crichton.
Pian piano scoprii come una trama potesse risultare molto più articolata e credibile nello spazio aperto di un romanzo piuttosto che in un blockbuster per famiglie, e soprattutto iniziai a imparare cosa si poteva fare con le parole invece che con le immagini, tanto che nei miei occhi alcune scene che nel film non c’erano neppure – tipo la prima, straordinaria apparizione del T-Rex seduto sul bordo di un fiume – sono tuttora impresse come se fossero state proiettate direttamente nella mia camera di allora o nella mia testa (quando leggi, soprattutto da adolescente, succede spesso che la tua camera diventi la tua testa, o forse il contrario).

Finire il libro mi sembrò un’impresa grandiosa, irripetibile nella sua fatica ben ripagata però da bellezza e divetimento. Perciò, e coerentemente col mio spirito dell’epoca, non toccai altri libri di narrativa per parecchio tempo. Ma il seme lasciato da Michael Crichton sarebbe germogliato, prima o poi, e trovo che rileggere la mia lista di letture di vent’anni dopo sia la testimonianza migliore di quella semina paziente, per quanto imprevista.