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Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana senza industrie culturali né mecenati, non c’era distinzione alcuna tra autore e pubblico, e ogni opera prodotta era un tassello, continuamente riscrivibile, di uno smisurato universo di fan made fiction

Sovrapposizioni
Nella Trilogia della Città di K, Agota Kristof scrive di una città (una galassia?) liberata – tra gli altri – da un androide che si chiama K-2SO (K, appunto). E poi di due gemelli. Uno di questi è Leia Organa, nata Skywalker, prima principessa e poi generale dell’esercito dei ribelli.
La rappresentazione, se vuol farsi leggenda, deve campare così: di approssimazione, ambiguità, costrizione ad uso e consumo dei fedeli. Del resto quando muore Carrie Fisher (la pazza, l’impasticcata, l’attrice e scrittrice brillante, la pupa del pappa Jabba the Hutt, ecc.) si finisce col piangere invece Leia Organa, nata Skywalker.

Chi muore davvero
Lo decidono, insieme, sceneggiatori e fedeli. Fino all’uscita di Episodio IX, Leia è viva e morta insieme come il gatto di Schrödinger. Carrie Fisher no, ma piangiamo comunque la principessa e il generale: se non altro perché certa gente, morendo, smuove qualcosa nell’intero sistema solare – un movimento psichico naturale e coerente, la stella che collassa fino allo spuntare dell’astro di Planck.
Come Padmé muore dando Leia alla luce, del resto, Debbie Reynolds muore dando Carrie alla morte: dov’è il confine tra ciò che è e ciò che è rappresentato?
La morte di David Bowie (ma poi è morto lui, o David Bowie?) rappresenta forse il primo smottamento di questa commozione globale, astro (nero) del ciel, pargol divin, virgineo e mistico, di stirpe regale decor, disceso a scontar l’error, sol nato a parlar d’amor, luce dona alle menti, pace infondi nei cuor.

Gli ultimi sentimentali sul pianeta terra
Gli antichi, che del resto per vati e profeti si sceglievano personalità multiple quando addirittura non collettive, erano convinti che alla morte di un poeta seguisse sempre la nascita di una stella, o di più stelle. Persino Orfeo frocio e attaccato ai fatti terrestri vide ascendere in cielo quantomeno il suo strumento, per via di questa convinzione – a cui noi contemporanei torniamo adesso, dopo che Beck Hansen, Fukuyama e i Simpson hanno dichiarato che la verità non è che un frammento, perciò risibile, e poi spallucce a volontà – adesso che a morire sono gli ultimi sentimentali sul pianeta terra.

Organa, Skywalker, forse Fisher
Tutt’uno con la Forza (costellazione, midi-chlorian, spirito santo), Leia Organa nata Skywalker può riabbracciare adesso l’amore di una vita (Han Solo, non ancora Harrison Ford, forse Paul Simon), conoscere sua madre una volta per tutte (Padmé, ma in fondo anche Debbie), guardare in cagnesco una gigantesca matrigna (Liz Taylor), aspettare i suoi figli (chi sei davvero, Ben Solo?) e il cane Gary.
E forse parlare con suo padre, ascoltarne la voce – quella vera, niente vocoder robotico e asmatico da James Earl Jones o Massimo Foschi.

Io, sono tuo padre
Bail Organa, padre adottivo, è di quelli che pensano che partecipare a una guerra equivalga alla possibilità di vincerne una, una soltanto.
Anakin Skywalker ne ha vinte due, perdendole entrambe. Perdendo una famiglia intera, condannandola a sua volta alla guerra. Una vita sbagliata, si direbbe. Condotta nel plagio del solco della fede altrui. Non meno di un bambino che nasce col fucile già in mano. Uno spartano. Certe vittime di guerra sono già morte prima di nascere, prima di uccidere: al soldo dell’imperatore o del presidente di una repubblica teocratica, non fa differenza.
Perdendo tua madre ho perso tutto, figlia mia, anche te e le guerre. Non dovevo farmi coinvolgere: è diventata la mia storia, ma non era la mia guerra. Tuttavia so bene che tu non saresti tu, tu e la tua splendente grandezza, se io non avessi fallito, e così tuo fratello.
Ero pazza nel sangue, papà. Il tuo sangue. Come certe ragazzine sbiadite che smezzano il corpo per troppo amore verso un padre inventato. E giù pillole, dottori e corruzione di ogni amore, anche solo sfiorato. Ho fatto la guerra a te e a chiunque per non farla (non più) a me stessa. Gli ideali si colorano di sangue vergine, il proprio, se ne hai ancora da versare. E io ne avevo, per fortuna. Questioni private, nient’altro, lo sai anche tu: e così il mio non era coraggio e neppure abilità di generale, ma stanchezza di me, necessità di sopravvivenza di me a me stessa. Questo ti dovevo, e nient’altro.
Adesso balliamo. Fuori fa freddo, ma non possiamo sentirlo.