
Da qualche parte devo aver scritto che nel mio dialetto, la mia prima lingua, non ci sono parole per dire o definire la nostalgia. Stando al vecchio adagio per cui se non c’è una parola che definisce una certa cosa allora quella cosa non esiste, dovrebbe conseguire che da queste parti, nella Città dei Giovani, non soffriamo affatto di nostalgia.
A dirla tutta, la nostalgia è una materia a cui mi interesso solo da qualche anno: ho sempre pensato di non soffrirne, e non per questioni linguistiche – manco fosse una malattia genetica, insomma; invece eccomi qui a parlarne piuttosto di frequente, anche a sproposito.
Magari è perché da qualche tempo ho realizzato di essere nel mezzo del cammin di mia vita, per dirla con Ginsberg che frulla Dante in un celebre haiku di inizio anni ’60, e allora inizio a guardarmi indietro anch’io; o forse perché è da più di un anno che sto scrivendo un libro in cui questo stato d’animo, che immagino acquoso e scuro, è uno dei sentimenti dominanti.
Un anno dietro a un libro, peraltro, è un lasso di tempo sufficiente perché s’inizi a sviluppare una nostalgia ulteriore, per quanto piccola, anche rispetto alle diverse stesure del testo che ti sei già buttato alle spalle.
In generale, comunque, credo che scrivere sia sempre occuparsi di qualcosa di acquoso e scuro: dunque, se non la tua nostalgia, quantomeno quella delle vicende che racconti – anche in un saggio come quello con cui sono alle prese, per quanto inventato, per quanto ludico, come direbbe Andrés Neuman – e di chi le racconta.
In una storia, un personaggio racconta sempre da un momento che è già accaduto, anche quando la vicenda si svolge al presente, persino se è un fantasma a parlare: nel momento in cui riferisce le sue profezie, ovvero ciò che gli altri vivranno, le rende già passate, e a me che do voce a quei fatti, soprattutto se tento di renderli vivi, non può che prendere un po’ di nostalgia, appunto, anche se per interposta persona (o interposto personaggio).
Vorrei tornare però alla questione delle parole assenti nel mio vocabolario dialettale.
Se ci faccio caso, noto che nella lingua della Città dei Giovani – altro sentimento dominante, più che vero e proprio protagonista, del testo su cui sono al lavoro – mancano del tutto o quasi parole che descrivano stati d’animo – nessun equivalente delle varie saudade, susta o appucundria usati in altri contesti meridionali – e più in generale qualsiasi cosa immateriale.
Sarà perché la pianura, dove tutto è visibile, in piano, porta a sperimentare poco con la fantasia, oppure perché la nostra è una genia di contadini e commercianti, tutti presi da questioni pratiche e quotidiane, e così finisce che ci serviamo di termini mutuati dal lavoro anche per produrre metafore e analogie.
Un esempio su tutti, diffuso anche altrove, è margiale, il manico di zappa con cui si indica l’atto della masturbazione maschile e, per estensione, anche una persona poco concreta, un po’ fine a se stessa – più stupida che ingenua o naïf, in ogni caso (occhio a come lo usate: margiale è tutt’altro che un complimento).
Del tutto o quasi, ho detto però: perché almeno una parola che spezza la costrizione semantica del visibile e del reale c’è, per quanto, come altre, sempre meno diffusa. Sto parlando di ’ntartieno, italianizzabile in intartenio o intartieno (la cosa interessante della cultura orale è che ognuno può declinarla come preferisce, per iscritto).
Anche nell’originale, comunque, la sonorità della parola rimanda subito a un’idea di intrattenimento, di svago e o passatempo senza meta o direzione particolari.
Dal momento che sto parlando di un termine che, come vedremo, è quasi dadaista nel suo non avere un senso preciso, proverò allora a raccontare come veniva usato qualche anno fa in alcuni contesti familiari piuttosto allargati.
Prendete un bambino sul punto di iniziare a fare i capricci: ha appena finito i compiti, non ha nulla da fare ed è troppo presto per andare a dormire. Il bambino va dalla mamma, che sta sbrigando delle faccende in cucina, e piagnucola che si sta annoiando. La mamma lo ascolta per un po’, poi dice: perché non vai dalla nonna, a farti dare un po’ di intartenio? Al bambino, come suol dirsi, si illuminano gli occhi. Corre fuori dalla cucina e poi fuori da casa, sale le scale, bussa a casa della nonna, la nonna apre e lui le chiede, appunto, se ha dell’intartenio. La nonna invita il bambino a entrare, gli dice di aspettare buono-buono e sparisce in corridoio. Quando torna ha un’espressione dispiaciuta, e dice che no, ha cercato bene ma deve averlo finito – però perché non va a chiedere alla zia? Lei di sicuro ne avrà conservato un po’ dalla settimana scorsa. La zia abita giusto dietro l’angolo, e così il bambino si rimette in marcia.
Purtroppo, però, anche la zia ha finito l’intartenio, e allora – dispiaciuta, ma non troppo – manda il bambino dall’altro nonno, che abita di fronte. Ovviamente, anche il nonno e poi anche lo zio, l’amico di famiglia, la sarta e il calzolaio in fondo all’isolato sono a corto di intartenio, per quel giorno.
L’ultimo della catena, il fornaio o un lontano cugino, suggerisce allora di chiedere al papà, che nel frattempo sarà certamente tornato a casa dal lavoro: non vuoi che non ne abbia preso un po’, passando dal mercato, per passare una bella serata in famiglia?
E così il bambino si precipita a casa, ma prima ancora di chiedere al papà sente le palpebre pesanti e gli occhi arrossati dal sonno. Sono esausto, sbuffa tra sé e sé, all’intartenio penserò domani.
Dà la buonanotte alla mamma e al papà, e tanti saluti alla misteriosa sostanza.
A questo punto sarebbe facile dire che l’estinzione della parola ’ntartieno sia dovuta alla progressiva scomparsa, anche al sud, di contesti familiari come quello appena descritto, o al fatto che oggi i bambini siano difficilmente a corto di intrattenimento. Questo aspetto della faccenda, però, mi interessa poco: non ho alcuna voglia di sviluppare una nostalgia anche per l’intartenio, per la sua suggestiva sonorità, per il suo significato perduto.
Preferisco pensare, piuttosto, che per una volta la mia lingua abbia saputo partorire qualcosa che non esiste, che apre a possibilità nuove, potenzialmente infinite, non più costrette nel raggio della sola realtà visibile – i miei amici mi hanno raccontato di aver immaginato l’intartenio, di volta in volta, come un giocattolo di legno, un sacchetto con una polverina magica o una cosa che si mangia; probabilmente, scoprire che non si trattava di nessuna di queste tre ipotesi li avrebbe solo resi più tristi.
Mi piace pensare, insomma, che l’intartenio sia stato un rimedio, se non contro la nostalgia tutta rivolta al futuro dei bambini, quantomeno contro la noia – anche quella degli adulti – quando la vita si riduce a mero elenco o sequenza di piccoli atti concreti, di quelli che ci ammazzano un po’ alla volta, senza ammazzarci mai per davvero.
Quel tipo di vita che poi finisci comunque col rimpiangere, e che genera, persino lei, una certa nostalgia: se solo avessimo una parola per dirla, da queste parti.
(Continua, forse…)