
Lo scorso 9 febbraio questo blog ha compiuto otto anni. Su WordPress, però, ci sto da dieci: era il 2007 quando aprii il mio primo blog, ci pubblicai nove racconti e poi lo chiusi.
Scorrendo i primi articoli del Malesangue, comunque, ho la netta quanto ovvia sensazione che mi muovessi, all’epoca, in una Internet completamente diversa da quella attuale. C’erano post brevissimi, ironici e performativi, che oggi andrebbero direttamente sui social, ad esempio, e altri più lunghi, che richiedevano un po’ di tempo per la lettura, e che effettivamente venivano letti con attenzione e fino in fondo. Oggi è un po’ più complicato farsi leggere quando si va in profondità – ed è subito nostalgia per la cara vecchia Internet dei bei tempi andati.
La nostalgia: ultimamente mi avvolge spesso come una coltre di fumo, e infatti ne ho scritto recentemente. In più, qualche giorno fa, reincontrando Paolo Cognetti dopo cinque anni, gli ho chiesto di scrivere una breve definizione di questo impalpabile sentimento accanto alla dedica sulla mia copia de Le otto montagne. Ma di questo – della nostalgia in generale e dell’incontro con Paolo – parlerò in futuro. Adesso parliamo di Internet.
(Quanto al futuro: a volte è così intenso, visivamente intenso, da sembrare già una nostalgia del presente: questo direi, se volessi dare un taglio poetico a questo post, ma andiamo avanti.)
Si può avere nostalgia di un luogo virtuale, peraltro relativamente giovane? Non mi riferisco all’Internet del 2007-09. Mi riferisco a quella degli anni ’90 e dei primi Duemila, fatta di nickname, chat dall’interfaccia kitsch e lunghissimi tempi di risposta nella corrispondenza via mail. Era un luogo strano, a volte ipercolorato, altre piuttosto anonimo, in cui stavamo mascherati come supereroi domestici o spie o detective privati dell’intimità nostra e altrui. Era un luogo a parte, in cui scaricare desideri e frustrazioni della vita offline. La stessa definizione di vita offline, allora, era impensabile.
Facebook cambiò molte cose. Quando mi ci iscrissi, nel 2008, pensai: ci stanno obbligando – ma chi? – a gettare la maschera. A trasportare definitivamente le nostre miserie, insieme alla nostra fisicità e alla nostra vita pubblica, in rete. Me ne innamorai, mi ci ubriacai. Ci fu un hype di un paio di mesi, durante il quale molti italiani approdarono su Facebook, e io stesso non riuscivo a parlar d’altro con gli amici. Erano i primi pomeriggi passati a dire: hai visto cos’ha scritto quello? E la foto di quell’altro?
In breve passammo da una Internet fondata sull’esplorazione privata della privacy e dell’inconscio – un posto in cui potevi essere tutto ciò che non potevi o, molto più giudiziosamente, non volevi essere dal vivo – a una che ti chiedeva di cedere sempre più spazio su quello stesso terreno – nel tuo interesse di lavoratore e consumatore, ovviamente. Dopo anni di blogstar, pubblicare su un blog personale aveva sempre meno senso, e così i blog come questo iniziarono a evolversi in riviste in grado di attirare più pubblico e persino sponsor. In mezzo ci fu la definitiva consacrazione di Youtube. Ricordo che per la prima volta ne sentii parlare da un ragazzo poco più grande di me, un ex batterista dark che mi raccontò che c’era questo sito su cui era possibile vedere tutti i live perduti delle tue band preferite. Pensai che non era possibile, senza neppure immaginare che qualcuno, un giorno, ci avrebbe fatto un mucchio di soldi.
Quell’Internet era sacra, se stiamo a una certa definizione di sacro, e cioè tutto ciò che è sottratto all’uso, al tempo concreto e quantificabile della quotidianità. Il sacro, in altri termini, è tutto ciò che è inutile. Certo, c’era già chi ci lavorava, con quel web: io stesso proponevo, subito dopo la caduta di Myspace, un corso per imparare a usare i social network. Cosa che mi procurava sguardi un po’ stupiti da parte dei miei concittadini: a cosa vuoi che serva, una cosa del genere? Internet – non solo i social – è solo un gioco per smanettoni.
Questo gioco, oggi, è diventato serissimo. Lo sappiamo. Lo usano i politici per parlare direttamente coi cittadini e lo stesso Facebook si propone come editore, da un lato, e dall’altro come strumento per le aziende di ogni dimensione e luogo del mondo ristretto che abitiamo da qualche tempo. I temi di discussione vengono decisi a tavolino – ma da chi? –, e sono gli stessi, ossessivi, per tutti, a livello globale. Certo, probabilmente da qualche parte sopravvive ancora quell’Internet oscura e underground di cui ho questa stupida e inutile nostalgia – e non c’è mica bisogno di cercare nel leggendario Deep Web, per trovarla. Ma il funzionamento tecnico di questa rete, quello della schedatura commerciale, della violazione reciproca nonché volontaria della privacy, dei post scritti come se si parlasse a un bambino (è il SEO, bellezza, e non puoi farci niente), delle nicchie in cui ci ficchiamo, senza più uscirne, come santi devoti a quel niente che è l’improbabile boost, sui nostri profili, di un tradizionale curriculum – tutto questo mi fa pensare, banalmente, che siamo nell’epoca mainstream o nazionalpopolare del web, in cui ogni affermazione, ogni articolo e ogni atteggiamento è performativo, ha il sapore di una rapina – fare il colpaccio, diventare famosi e fuggire col malloppo – che spesso si riduce a una rapina fatta a sé stessi, al proprio tempo libero, alla propria soggettività. Ci si consuma nel desiderio di stupire, di scandalizzare, di affermare un’idea del mondo, la propria, che sia sempre più intelligente o più fica o più intensa di quella degli altri. Più definitiva. E allo stesso tempo, dopo l’ennesima giornata passata a discutere, realizziamo quanto oggi sia molto complicato avere un’idea o anche solo un po’ di rispetto per i propri gusti, in un mondo in cui tutti cercano un eroe in cui credere ciecamente o un vecchio idolo da affossare. È incredibile quanta energia mettiamo in questo gioco.
Bene, questo post sta prendendo una brutta piega moralistica, oltre che nostalgica. Magari un giorno non troppo lontano, quando scriveremo direttamente col pensiero, scatteremo foto direttamente aprendo e chiudendo gli occhi o semplicemente ameremo amando, magari quel giorno leggeremo questi ragionamenti – che non sono solo miei, è chiaro – con lo stesso sguardo di penoso compatimento che riserviamo oggi a certi usi e costumi dell’epoca vittoriana. Del resto, io stesso continuo a esplorare Internet con curiosità in tutte le sue manifestazioni, e in fondo, se la rete è soprattutto linguaggio e scrittura – di un testo, di un codice – ci lavoro e ci lavorerò ancora per un po’. In più, l’atteggiamento nostalgico è sempre una bolla: nel senso che, se potessimo rivivere certi luoghi – fisici o virtuali – del passato, realizzeremmo presto quanto li abbiamo idealizzati, quanto certe cose non erano poi così fantastiche come ci ostiniamo a ricordarle.
Ma a proposito di bolle. Nel corso della sua relativamente giovane esistenza, l’Internet di uso non militare, cioè quella popolare e popolata degli ultimi anni, ne ha già vista più d’una. Anzi, la sua diffusione globale, negli anni ’90, ne conobbe una grandissima, che per molti tempo – forse, generalizzando, fino al successo e alla morte di Napster – ne minò la credibilità. Non è detto, perciò, che non siamo in un’altra grande bolla della rete. Non è detto che Internet debba essere questa replica più intensa e pervasiva della televisione che è attualmente, per certi versi. Non è detto niente. Magari, quando avremo finalmente sviluppato una tecnologia affine alla telepatia, saremo capaci di guardare con nostalgia persino all’Internet dei social, di rimpiangere questo tipo di interazione che si illude di essere istantanea confondendo oralità e scrittura.
In fondo, forse Internet e la nostalgia hanno questo, in comune: di essere ricorsive e capaci di espandersi e ramificarsi all’infinito. Chissà. Nel frattempo, possiamo ancora dedicarci alla nostalgia per questioni ancora fisiche, laddove la fisicità filtrata dalla memoria è sempre un ambiente virtuale: ad esempio la Città dei Giovani da cui siamo fuggiti a diciott’anni, la finestra di una chat di Messenger in cui abbiamo passato diverse notti in bianco, oppure la montagna in Val d’Aosta esplorata da bambini o ancora, perché no, un vecchio post letto e riletto su un trabiccolo attempato e melenso come questo blog.
(Continua. Forse…)