
Stanotte, come sempre tra il 27 e il 28 aprile, ho sognato Roberto Bolaño. Per prima cosa si è appollaiato sulle lenzuola come un demonietto fantastico, poi mi ha sussurrato una strana frase, qualcosa che suonava più o meno così: “Una letteratura non vale niente se non è accompagnata da qualcosa di più del mero atto di sopravvivere.” Ci ho pensato su, poi ho detto: stai parlando del suicida, è chiaro. Quale suicida?, ha detto lui. Quello della lettera, Michele, il suicida di Udine. Il giovane precario, il depresso e tutto il resto. Ne hanno parlato tutti, per giorni, anche se ormai se ne saranno dimenticati. Oh, sì, ha detto Bolaño, ne ho sentito parlare anch’io. Ma più che la lettera di uno che aspirava a morire sembrava quella di uno che aspira a diventare un fantasma. Se ci pensi non è la stessa cosa. Gli ho detto che non m’interessava cosa ne pensasse lui, e che per me la lettera poteva anche essere falsa. Tanto a voi vivi interessa il verosimile, ha detto lui, mica la verità o la menzogna. Zitto, tu, gli ho detto, che sei il più grande troll della letteratura contemporanea. Dammi dei numeri, piuttosto. Ha riso. Cosa non ti convince della lettera, ha chiesto, a parte che è falsa? Non so se è falsa, ho detto, del resto a che serve sapere se lo è? È come dici tu, ci interessa il verosimile. Il simbolo. La gente ha bisogno di simboli. Sono catartici, no? Ti assolvono dal fare. Dal provare a comportarti in modo diverso. Una volta che hai pianto il precario-depresso che è morto per i tuoi peccati e per quelli dei tuoi padri, che resta? Ci ha pensato. Poi ha detto: che significa comportarsi in modo diverso? Ho preso un lungo respiro. Significa che se vuoi cambiare le cose ti metti insieme agli altri e ci provi. Noi siamo persi in battaglie solitarie. Siamo fissati con questa stronzata del talento, di meritare sempre qualcosa di più di quello che abbiamo, e che sia dovuto, di serie, alla nascita. Per questo in fondo speriamo che le cose continuino a funzionare (o a non funzionare) come sempre, nella speranza che prima o poi tocchi a noi, la Grande Occasione. È così che funziona. Prendi i tuoi amici dell’editoria, ho detto, e lui ha sorriso malizioso. Tutti a dire che è un mondo piccolo e chiuso in se stesso, che non funziona, che si fanno troppi libri, che si punta tutto – troppo – sulla performance, con questi scrittori che fanno libri o articoli o post di Facebook in serie per poi andare in tour, come se fossero dei musicisti, per procacciarsi qualche like con una bella foto sgranata della solita brutta copertina… L’ho guardato. Sto diventando reazionario, ho detto, ma il fatto è che nessuno – neppure il più critico verso un sistema del genere – è disposto a metterlo in discussione nei fatti, e non solo a parole. Fanno delle disamine puntualissime su dittature, sfruttamento, precariato e tutto quello che vuoi con la sinistra, ma poi con la destra fanno le stesse cose di sempre. E c’è un esercito di gente che non vede l’ora di entrare in questo mondo, di farne parte, nonostante sia un mondo decrepito, per via di quella vecchia idea romantica di fare lo scrittore. Al che Bolaño ha sbuffato, mi ha guardato. Credi che ai miei tempi, in America latina, fosse diverso?, ha detto. Ti ricordi cos’ho detto a Siviglia, quella volta? No, che non te lo ricordi. Ora te lo ripeto. D’accordo, ho detto, ma ricordati che questo è il mio sogno e che per me resti pur sempre il più grande troll della… Ok, ok, ha tagliato corto lui, e poi ha iniziato.
Veniamo dalla classe media o da un proletariato più o meno sistemato o da famiglie di narcotrafficanti di seconda linea che già preferiscono, alle ferite d’arma da fuoco, la rispettabilità. La parola chiave è rispettabilità. Già ne ha scritto Pere Gimferrer: un tempo gli scrittori provenivano dalle classi alte o dall’aristocrazia, e scegliendo la letteratura sceglievano, almeno per un periodo che poteva durare tutta una vita come quattro o cinque anni, lo scandalo sociale, la distruzione dei valori tradizionali, la burla e la critica permanente.
Ora, al contrario, soprattutto in America Latina, gli scrittori provengono da classi medio-basse o dalle file del proletariato e ciò che desiderano, a fine giornata, è una tenue patina di rispettabilità. E cioè: gli scrittori oggi cercano il riconoscimento, ma non il riconoscimento dei loro pari, quanto piuttosto il riconoscimento di quelle che si suole chiamare “istanze politiche”, i detentori del potere, e, tramite esso, il riconoscimento del pubblico, vale a dire la vendita di libri, che fa felici le case editrici ma che fa persino più felici gli scrittori, quegli scrittori che sanno, poiché lo hanno vissuto in casa da piccoli, quanto è duro lavorare otto ore al giorno, o nove o dieci, che furono le ore lavorative dei loro padri, quando c’era lavoro, fra l’altro, perché peggio che lavorare dieci ore al giorno è non poterne lavorare neanche una, e trascinarsi in cerca di occupazione (pagata, s’intende) nel labirinto, o, più che labirinto, nell’atroce cruciverba dell’America Latina. E così i giovani scrittori, come si suol dire, si scaldano, e si dedicano anima e corpo a vendere.
Alcuni utilizzano più il corpo, altri utilizzano più l’anima, ma alla fine dei conti il punto è vendere. E cos’è che non vende? Ah, questo è importante tenerlo bene in mente. La rottura non vende. Una scrittura che si immerge con gli occhi aperti non vende. Per esempio: Macedonio Fernández non vende. Se Macedonio è uno dei tre maestri di Borges (e Borges è o dovrebbe essere al centro del nostro canone), questo è il meno. Ogni cosa sembra indicarci che dovremmo leggerlo, però Macedonio non vende, per cui ignoriamolo. Se Lamborghini non vende, basta con Lamborghini. Wilcock è noto solo in Argentina e solo da pochi lettori infelici. Pertanto, ignoriamo Wilcock. Da dove viene la nuova letteratura latinoamericana? La risposta è semplicissima. Viene dalla paura. Viene dall’orribile (e in un certo senso abbastanza comprensibile) paura di lavorare in officina o vendendo paccottiglia sul paseo Ahumada. Viene dal desiderio di rispettabilità, che non nasconde altro che paura. Potremmo sembrare, a un osservatore disattento, figuranti di un film di mafiosi newyorkesi, sempre a riempirci la bocca di rispetto. Francamente, a prima vista, componiamo un deplorevole gruppo di trentenni e quarantenni e talora di cinquantenni in attesa di Godot, che in questo caso è il Nobel, il Rulfo, il Cervantes, il Príncipe de Asturias, il Rómulo Gallegos.
Quando mi sono svegliato ho visto tre numeri stampati sul soffitto, tra una ragnatela e una crepa nell’intonaco. 13, 26, 66. Non li ho giocati. Sono usciti.
il Bolano dell’opera teatrale dell’altro post, fa da *volano* a riflessioni scomode. mmm… interessante. cinicamente potrei dire che in effetti tra vivere e sopravvivere lo scarto è piuttosto significativo. poi, cheddire, com’è noto i fantasmi aleggiano, infestano i luoghi e le menti delle persone più suggestionabili. i morti invece dovrebbero morire e basta senza scrivere niente, dovrebbero sparire senza dare nell’occhio, senza lasciare alcun segno/segnale (quindi…). però… però poi non è che l’umida poltiglia grigia che farcisce le nostre scatole craniche brilli per coerenza e razionalità e ciò mi fa pensare che spesso e volentieri un suicida sia mosso da bisogni e pulsioni difficilmente riconducibili a motivazioni logiche (quindi forse non è questo il punto e “del resto a che serve sapere se”?). invece, direi che l’io narrante, indubbio alter ego dell’autore, mette il dito nella piega degli eventi quando “spiaga”: “Significa che se vuoi cambiare le cose ti metti insieme agli altri e ci provi. Noi siamo persi in battaglie solitarie.”
ecco.
aggiungerei, al discorso di Bolano, che ciò accade anche per un dato di fatto che andrebbe indagato da un punto di vista scientifico psicometrico: la maggior parte degli scrittori sono dei sociopatici. con ciò non voglio dire che la disamina del fantasma appollaiato sulle lenzuola – immagine intrigante – sia da buttare (rispettabilità, istanze politiche, pubblico, *vendere*), ma se il campione di popolazione inziale non è rappresentativo (id est, se è stata selezionata una sottopopolazione con caratteristiche diverse da quelle della popolazione generale), allora il risultato finale (“scrittori” e “artisti” persi in battaglie solitarie) non è solo colpa del sistema (proletariato, aristocrazia, lotta di classe, catena di eventi che vichianamente si ripete), ma *anche* di profili psicologici preselezionati che prevalgano nella sottopopolazione (id est, i suddetti tratti caratteriali sociopatici).
chiudo (scusa se mi sono dilungato, ma come sempre, mi rincuoro pensando che se non interessa basta non leggere) con uno stampatello: “MA ALLA FINE DEI CONTI IL PUNTO E’ VENDERE. E COS’E’ CHE NON VENDE? AH, QUESTO E’ IMPORTANTE TENERLO BENE IN MENTE. LA ROTTURA NON VENDE”. ma zio birillo, in ultima analisi cosa sarà mai ‘sta “rottura”?!? la rottura è l’arte. l’arte rompe uno schema, la creatività rompe uno schema e infatti l’arte per definizione non è seriale. e a questo punto mi dico: lo vedi che il cerchio si chiude? infatti, in un precedente commento scrivevo che l’errore di fondo è proprio quello di considerare l’arte una merce. è il lavaggio del cervello operato dal sistema mercato globale ordoliberista, in cui siamo stati cresciuti e che fin da piccoli ci educa al culto della quantità (moneta, successo, vendere/acquistare). e invece l’arte non è una merce. l’essere umano non è una merce. il lavoratore non è una merce… concetti sui quali *non* dobbiamo scendere a compromesso, pena la fine dell’arte e di ciò che ci rende umani.
un abbraccione e un saluto affettuoso a Melquiades Locura..
Melquiades ricambia!