Se all’epoca degli Antichi avessimo avuto già luce e gas, Prometeo non avrebbe rubato il fuoco e forse gli dèi non si sarebbero mai palesati all’uomo. Oppure chissà, magari avrebbero implorato un po’ di attenzione da parte nostra. Di certo, noi non avremmo avuto la più grande scoperta scientifica di tutti i tempi: e cioè la divinità stessa.

Oggi infatti adoriamo la tecnica e la scienza ignorandone completamente il funzionamento, la loro vita interiore. Facendone metafisica. Adorando questo dio che balbetta e stenta a rivelarsi, come dice Walter Siti, e soprattutto non si dà un nome (come del resto dovrebbe fare ogni divinità che si rispetti).

Ad ogni modo. Ieri sono stato a teatro a seguire uno spettacolo su un celebre romanziere cileno. Nel frattempo arrivavano gli sconfortanti dati sulla lettura di libri di carta in Italia. Mettendo insieme le due cose, in nottata ero arrivato a queste conclusioni.

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Si fa così, rossetto e UNAM occupata
Scoperto per caso dello spettacolo di Nicola Lagioia su Roberto Bolaño, mi ci sono infilato in extremis grazie a vecchi espedienti da mendicante, a una finta 50 euro falsa e alla gentilezza delle signore del teatro.
Non potevo mancare: ero a Bari, il Kismet irradia sempre qualcosa di incomprensibile gettando luce sui miei migliori fallimenti — facendo del miglior me stesso attuale uno sbiadito fantasma di quello di allora, che falliva quei fallimenti — e i protagonisti della serata pure chiamavano già nel pomeriggio per bocca d’altri con ritmi e cadenze simili, tanto di Capurso quanto di Santiago (Ok, visto che l’embed non funziona continua a leggere su Facebook)

Mi sbagliavo, qualsiasi cosa volessi dire. O perlomeno mi sbagliavo in parte. I dati di ieri e degli ultimi anni sono dati sulla fruizione di una certa tecnologia. E cioè la carta che veicola parole e in qualche caso una materia che chiamiamo letteratura e che tendiamo a credere fondamentale per lo sviluppo di ogni invidivuo.
E se invece le persone la stessero cercando altrove, questa materia oscura, come suggerisco nel mio post su Facebook? Questa cosa la ripeterò fino alla morte, come nel caso del Nobel a Bob Dylan.

In ogni caso, gli sconfortanti dati di lettura sono soprattutto dati di un sistema industriale che industriale non è mai stato per davvero, più che di un sistema per così dire culturale. Un sistema che produce troppo e che non è sostenibile. Questo lo sanno tutti. Conosco un sacco di autori. Molti di questi escono continuamente con libri che vengono definiti fondamentali, profondi, intensi.
Dite un po’: tutta questa intensità non è sospetta?

Io stesso, del resto, vado raccontando di essere alle prese con la scrittura da un libro da più di un anno. Il che però è diverso dal pubblicarlo. Stando così le cose, e dicendo quello che dico, per coerenza potrei anche decidere di non pubblicarlo. In ogni caso scrivere è diverso da pubblicare. E magari, perché no, il vero libro che sto scrivendo, magari pure a mia insaputa, è lo zibaldone crossmediale che vado creando da quasi dieci anni tra questo blog, i miei post su Facebook, le mie foto su Instagram e i miei video su Vimeo. A ben guardare, in effetti, tra tutti questi contenuti ci sono delle connessioni, che vanno ben oltre i link che ho inserito consapevolmente qui e lì.
Dopo la mia morte, chissà, magari a qualcuno verrà voglia di seguire questi percorsi, di mettere tutto assieme e svelare le connessioni, i significati che furono nascosti persino a me stesso.

Ma d’accordo, qui si parla di leggere almeno un libro di carta all’anno. Dunque anche libri del passato, non per forza ultime uscite o sottoprodotti dell’attuale non-industria editoriale italiana. Ieri però sono stato a teatro, dicevo. E cos’è il teatro oggi? Una vecchia forma d’arte che abbiamo mandato un po’ in soffitta, di cui adesso fruiamo – generalizzando – con rispetto e nostalgia. Un’esperienza di nicchia, che non pretende più di informare il mondo con la sua estetica, col suo modo di rappresentare la realtà o la nostra soggettività. La pittura non è stata mandata in pensione dalla fotografia, ma difficilmente oggi racconteremmo una guerra mondiale con una moderna Guernica di Picasso. E del resto, quando la diffusione del romanzo divenne popolare e capillare, alle ragazzette di Ibsen si rimproverava di star chine come eroinomani su quei cosi di carta, strumenti diabolici che le avrebbero deviate dall’esser brave mogli e donne di casa. E tutti noi oggi ci spezziamo il collo sugli smartphone, guarda un po’. Nessuno, nell’Ottocento, avrebbe pensato che l’arte della lettura sarebbe divenuta un tempio sacro, secoli dopo, e che avremmo dovuto obbligare un ragazzino a leggere almeno un artefatto tecnologico di quel tipo all’anno.

Tutti, però, vogliono scrivere un romanzo. Almeno uno. Il feticcio sopravvive, a quanto pare, e io credo che dietro questo inestirpabile desiderio ci sia la paura della morte. Della morte in vita, soprattutto. Aveva ragione Belano a Siviglia. E davvero continuo a sognare le sue parole ogni 28 aprile, nel giorno cioè della sua infinita venuta al mondo. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.

(Continua, forse…)