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Università degli studi di Bari, anno accademico 1977-78: mio padre si laurea in lingue con una tesi sul rapporto tra cinema americano di fantascienza e ideologia tra il 1949 e il 1963. Per scriverla, il laureando Cosimo Montanaro ha viaggiato fino a Venezia e consultato infinite fanzine (o almeno questo è quello che racconta adesso, quando glielo chiedo).
Quarant’anni dopo la tesi spunta fuori dalla vecchia libreria di famiglia. Finalmente posso darci un’occhiata. Leggendola non posso non pensare alla riscoperta della sci fi (e del weird) di questi anni, a tutto questo materiale che ha costituito l’immaginario tornato ultimamente di moda grazie a nerd e informatici di seconda e terza generazione.
Per dirne una, nel 1978 Star Wars era uscito da un anno appena (precisamente nel maggio del 1977, per convenzione #maythefourthbewithyou), eppure nella tesi di mio padre si parlava già di space opera. E c’erano già la paranoia dell’atomica (ovviamente), le diseguaglianze economiche ormai di livello globale, il duello infinito tra tecnica e fede, il cinema degli USA come ideologia dominante e la paura di tutto ciò che poteva arrivare da fuori (molto prima dell’11 settembre e del remake de La guerra dei mondi, dunque).
Quello che c’era allora e che forse non c’è oggi era l’idea che il capitalismo non fosse l’unica strada percorribile dall’umanità. La cosiddetta utopia, insomma.

Ma soprattutto: rileggendo la tesi, e soprattutto nei passaggi in cui si parla di B movie, mi è sembrato di percepire la voce di mio padre affettuosamente ironica come quella di un Kurt Vonnegut alle prese con l’opera omnia di Kilgore Trout; un compendio di trame improbabili (e analogiche) per film altrettanto improbabili, che però molto raccontavano di un’epoca.
Quello che segue, allora, è un estratto a parer mio piuttosto significativo di tutto questo lavoro (oltre che il 500esimo post di Malesangue).
Buona lettura.

Nel 1953 compare sugli schermi The War of the Worlds (La guerra dei mondi) di Byron Haskin, probabilmente l’apporto più spettacolare al tema dell’invasione. Barré Lyndon ne trasse il soggetto per Haskin dall’omonimo romanzo di H.G. Wells, ma stravolgendone completamente l’essenza: l’orrore di Wells di fronte a una società e a un mondo che sentiva divenire ogni giorno più estranei, distrutti e trasformati dagli anni, viene ridotto al tema sempre vivo dell’invasione e rinnovato da un diffuso elemento religioso del tutto estraneo all’ateo Wells: se nel precedente The thing a tentare l’approccio pacifico (e inutile) con gli aggressori era stato uno scienziato che aveva gridato alla Cosa: “Non sono tuo nemico, sono uno scienziato”, qui ci prova un sacerdote. Questa volta le intenzioni del regista sono diverse: mentre lo scienziato ci era stato presentato da Hawks sotto una luce negativa, contrapposto all’eroe, Haskin ci presenta il reverendo Collins come un personaggio positivo, e la sua è una figura chiave nonostante compaia per breve tempo. Egli avanza verso gli extraterrestri tenendo davanti a sé una croce e recitando un passo della Bibbia: “Camminando attraverso l’oscura valle della morte, io non temo il male.”

Quando il reverendo viene colpito dal raggio della morte dei marziani, la dimensione della malvagità del nemico è totalmente espressa, ed è chiaro che da quel momento la lotta non sarà più tra gli uomini e i marziani, ma tra il Bene e il Male, tra chi possiede la fede e tra chi la rifiuta. Al di là della trasfigurazione filmica, gli atei per eccellenza in quel periodo (veramente anche dopo) erano tutti coloro che abbracciavano il comunismo: questo fu uno degli argomenti più sfruttati to scare hell out of American people, e senza dubbio quello che fece maggiormente presa, come scrive J. De Hart Mathews: “Per quelli che obbedirono alla retorica di un J.R. McCarthy e di un George Dondero, l’anticomunismo divenne un richiamo non solo per il conservatorismo politico, m anche per il capitalismo competitivo, il nazionalismo innato, e l’ortodossia religiosa.”

La campagna anticomunista provocò il fiorire di numerose organizzazioni religiose il cui scopo principale era – ed è ancora oggi – quello di combattere il comunismo, identificandolo con l’ateismo, se non addirittura con l’Anticristo. Una di queste, la John Birch Society, ebbe un notevole peso sull’opinione pubblica, e arrivò ad accusare lo stesso presidente Eisenhower di “aver servito coscientemente il comunismo per tutta la sua vita di adulto”. E il reverendo B.J. Hargis, fondatore della Crociata Cristiana, ripeteva spesso:

Io sono oggi un cristiano conservatore perché solo il conservatorismo negli Stati Uniti presenta la vera dottrina di Cristo. Le chiese liberali predicano in verità una vangelo socialista o, per dirla in vernacolo, predicano il vangelo secondo Martin Luther King. (…) Io credo che Dio ci ha dato l’America, credo che l’America è la più grande nazione sotto il sole ed è l’ideale dei governi, e credo che la sola speranza di mantenere la libertà è il punto di vista del tradizionalismo cristiano.

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Di questo zelo religioso quasi ossessivo è intriso The War of the Worlds: quando uno scienziato calcola che i marziani, con le loro armi, impiegherebbero solo sei giorni per distruggere la Terra, l’eroina osserva che è “lo stesso tempo che è stato impiegato per crearla”. E alla fine del film, quando le astronavi dei marziani cominciano inspiegabilmente a precipitare attorno alla chiesa in cui si sono rifugiati alcuni superstiti, la voce fuori campo che sta narrando del tremendo destino a cui sono andati incontro gli uomini, spiega:

Avevamo tutti implorato un miracolo (…) quando tutti i mezzi escogitati dagli uomini erano falliti, i marziani vennero distrutti dagli esseri più microscopici che Iddio, nella sua infinita saggezza, aveva messo su questa terra.

Cioè i microbi.

Questa idea dell’intervento divino – diretto o meno – non resterà certo un’eccezione: oltre che in diversi film di creatures la ritroveremo in altre opere, espressa più o meno esplicitamente. Si tratta di film cosiddetti minori, che per quanto poco realistici o addirittura esilaranti, esprimono pienamente lo spirito di crociata anticomunista che anima tanta parte dell’opinione pubblica di questi anni, magari in maniera più ingenua rispetto a realizzazioni più serie – ma certamente più immediata.
È il caso di film come The Next Voice You Hear (1950) di W.A. Wellman e di The Red Planet Mars (1951) di H. Homer, in cui Dio in persona – servendosi della radio o della televisione (!) – interviene per rimettere un po’ d’ordine sulla buona vecchia Terra spazzandone i residui nazisti e abbattendo il comunismo nell’Unione Sovietica per mezzo di una poco plausibile rivoluzione di credenti: un nuovo esercito di crociati equivalente alla polizia o all’esercito di tanti altri film.

All’impiego dell’esercito si ricorre senza preamboli anche in Invaders from Mars (Gli invasori spaziali, 1953) di William C. Menzies, film che offre una variante, o una continuazione, al tema dell’invasione: l’attacco esterno provoca l’invasione interna, o si attua attraverso questa, così che il nemico non è più soltanto quello che viene da fuori, dallo spazio più o meno conosciuto, ma può essere chiunque, anche il tuo vicino di casa.

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Questo nuovo aspetto degli invasori fu trattato da diversi altri registi dopo il successo di Invaders from Mars, ma va detto che quasi nessuno ebbe mano felice, eccetto forse soltanto Siegel con Invasion of the Body Snatchers (Invasione degli ultracorpi, 1956). Tutti gli altri utilizzano temi e situazioni già presenti nel film di Menzies, e l’unica variante offerta è relativa ai mezzi con cui gli alieni si procurano dei collaboratori fra gli uomini: Invaders from Mars sfrutta l’espediente ormai classico del lavaggio del cervello, espresso metaforicamente dal congegno elettronico che gli alieni applicano dietro la nuca di alcuni uomini per potersene servire a distanza. Da notare come l’argomento del lavaggio del cervello, del plagio mentale ottenuto con una continua campagna ideologica fosse uno degli elementi caratteristici della propaganda antisovietica; a questo argomento, per quanto riguarda Hollywood, ricorsero diverse persone accusate dall’HUAC di sovversione: esse dovettero affermare in pubblico di essere state sviate dall’ideologia comunista, di aver perso di vista i valori fondamentali della democrazia americana, ma di essersi redente.

Invaders from Mars fu l’ultimo film di science fiction di Menzies, un regista che in questo campo aveva realizzato, nel 1936, il classico Shape of Things to Come. La sua ultima realizzazione, nonostante alcune sviste nei trucchi (per esempio le tute spaziali degli alieni, che sono dotate di vistose chiusure lampo), è un’opera dignitosa che raggiunge attimi di forte suspense. Nel finale, il ragazzo che era stato unico testimone dell’inizio dell’invasione si sveglia e scopre che è stato tutto un sogno. Ma, alzatosi dal letto e avvicinatosi a una finestra, scorge un oggetto luminoso che precipita proprio come all’inizio del sogno. Il messaggio del film è dunque completo: sì, è vero che per il momento l’invasione è un’ipotesi, magari improbabile come un sogno, ma forse un giorno ci sveglieremo e ci accorgeremo che è già iniziata. In questo Invaders from Mars ricalca molto il precedente Invasion USA (Invasione USA, 1952) di A.L. Green, ed è l’espressione filmica dei messaggi di uomini politici come McCarthy a stare all’erta, a non farsi cogliere impreparati dal nemico.

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