Il libro l’ho scritto e l’ho detto. Quindi l’ho scritto. E giù su Facebook richieste d’amicizia da maschere, forse illuse che io conti qualcosa: nomignoli, false femmine, aspiranti aspiranti – ormai anche ad aspirare è tutta un’aspirazione. E poi un agente, uno solo: certe cifre, briciole di cifre, che mi son sentito male per lui, a dire dài, qui non mangi manco tu, facciamo finta di niente, uno che lo pubblica già c’è, in fondo.
Ora è da vedere. Al giorno d’oggi, l’editore edita ancora? O manda in stampa il grezzo, così com’è, con tutto quel che ha da pubblicare? Allo scrittore, per tutelarsi, non resta allora che ricorrere a quella furba e pigra spazienza che anima la scrittura e irride l’idea stessa che possano esserci progetti o disegni compiuti; perciò a pubblicare preferisco licenziare: così dimentico quell’ammasso di refusi modellato in forma di, a dare l’idea di e l’illusione che. Per avere idee bisogna averle forti, del resto, e del resto conosco un solo modo per scrivere un romanzo perfetto: non scriverlo, non scrivere affatto. La letteratura, la sua composizione chimica: due molecole di niente e una di idiozia, il lampo – quando il fulmine ti colpisce in pieno e vedi gli altri già cadaveri e tu lo sei e non lo sei ancora.
E miao, disse quello, sono il gatto di Shredder, preferendo le Tartarughe Ninja alla fisica moderna.
La storia del libro, però, fin qui non l’ho detta. Una storia segreta. Una setta. Piccoli clandestini in una città giovane e oscura, bagnata da una luce gialla di noia che è già nostalgia. Forse cospirano lo stesso nulla della letteratura, i miei ragazzi segreti: ma su di loro non dirò altro. Sulla città, invece: ecco un estratto da un’intervista altrettanto segreta.
“Signora Città dei Giovani, banale a dirsi ma lei un po’ ci ammazza, non trova?”
“No, non credo. Ma comunque o voi o me. Voi però vi schiaccio facili con mura invisibili che si stringono correndosi incontro un po’ alla volta, ogni domenica, non ve ne accorgete neppure e già soffocate.”
“Sono mura circolari?”
“Sono mura circolari, è evidente. Perciò non vi ammazzo: vi circondo, vi rendo immortali.”
Serve uno che te lo dice, insomma: un Borges per non udenti, perché lo scricchiolio se ci fai caso si sente eccome: nei giorni di faùgna imperiale è il frinìo masturbatorio di cicale prese in quell’approvazione che scambiamo volentieri per amore. Siamo conosciuti, saputi: non amati – e le cicale dicono togli la maglia della salute, togli la maglia della salute; ma non è ora il tempo giusto, non ancora, il cielo si rovescia a terra spesso, in vento di pioggia granulosa, da oltremaggio africano.
C’era un tempo, in effetti, un cui maggio era questo: la balaustra di roccia sull’orrida forra, noi sporti sulla stagione barocca che sarebbe venuta, imprevedibile e oscura di luce, a dirci quello che al catechismo si omertava; e cioè che avremmo ucciso, lallando a noi stessi che non saremmo stati salvati – nessuno: noi ragazzacci perbene, perduti alla città e alla famiglia per qualche ora appena, ce ne andavamo in giro in bicicletta fino alla campagna di sterpi e scheletri di ferraglia catodica, fino al gran fiume di un tempo poi strozzato in canale d’acqua marcia dalle velleità, dalle mura del cerchio.
Nel fiumiciattolo spento gettavamo quei rifiuti di vecchi attrezzi per l’intrattenimento domestico: per ingolfarlo, per metter fine del tutto al passato di fasti e radiazioni imperiali. A pensarci ora, il risultato era sempre poco meno che meschino; nessuna ostruzione, solo il rinculo dell’acqua spinta in alto dalla massa catodica immersa a tuffo dallo sforzo congiunto – e noi infetti, magliette a righe e pantaloncini di jeans imbrattati, a chiederci per giorni se non l’avevamo fatta grossa, stavolta.
Quel cesso di fiume no, non l’avremmo estinto, e non beccammo nessuno malattia da vaccino se non quella di trovarci ambigui e velleitari come tutti – la malattia degli adulti; ma restava il tentativo, il peccato tutto estivo d’aver tentato. Era un segreto – altra malattia degli adulti – ma uno di noi parlò: eccitato dall’insuccesso l’aveva confidato alla madre, una pazza; qualcuno di noi, dopo una visita a casa dell’amico, raccontava non tanto d’averla vista nuda, quanto il piacere di lei nel farsi trovare svestita perché noi chiudessimo gli occhi, pur di restare infanti. Rideva, la mamma pazza.
E toccata o meno, la madre avrebbe cantato, senza dubbio, e così avrebbero saputo i genitori di tutti. Progettammo perciò di ucciderla. Questo il piano, gelido e livido: avremmo spinto il figlio a invitarci, un pomeriggio, per un’ora o due di videogiochi o sigarette segrete; e così introdotti in casa avremmo avuto accesso a un coltello tra i tanti in cucina, di lato alla stanza da letto. Poi, mentre lei riposava, uno a sorte tra noi sarebbe stato l’eletto e avrebbe compiuto il fatto: perché questo era il piano, l’evidenza di un atto già finito prima ancora che avvenisse, il progetto perfetto di dirsi capaci di farlo senza poi farlo davvero.
Ma la festicciola ci fu davvero: per un’ora restammo attaccati alla catodicità del ritrovo, a guardare vecchie cassette di finali di Coppa Campioni, ipnotizzati dalla liturgia di quell’lsd di colori slavati che scorrevano sullo schermo a risoluzione scarnissima – finché non si presentò la presunta occasione del sonno; uno di noi andò in cucina e s’appropriò della lama con lo sguardo, poi dal corridoio una voce: era lei, la mamma nuda, aveva cambiato idea e per il caldo non avrebbe dormito; così dichiarò a voce alta e si lasciò guardare, ancheggiando sui fianchi melensi mentre andava verso il bagno a cercare il fresco di una doccia gelata.
Il potente assassino tornò da noi sconsolato. Disse che aveva visto una barba, la prima della sua vita. Il figlio della matta rise, non ci pensò, rise ancora e si abituò all’idea.
L’estate passò. Ci dimenticammo del primo peccato, quello mangiucchiato sulla riva del fiume strozzato in canale, e del suo sputtanamento di famiglia in famiglia; del secondo, del progettato omicidio, avemmo tutti la sensazione d’averlo compiuto, a turno, andando in cucina e scoprendo così che non c’era nessuna distanza tra follia, utero, amore: senza mai affondare la lama. L’oltremaggio passò e tutti avevamo assorbito la lezione come nella classica fiaba raccontata dal pesce rosso-madre al pesce rosso-figlio.
Consegnando all’oblio la morale, avremmo conservato i dettagli più infimi e ghiotti: nessuno dei quali inibì il racconto, anzi – lo perpetrò e perpetuò all’interno della fortezza fino a oggi, fino a ora che lo scrivo.
(Continua, forse…)
tartarughe ninja alla riscossa a parte, con il paradosso del gatto mi hai fatto fantasticare – in fondo anche quello di Schrödinger era un esperimento mentale, no? – che in molti ambiti (non solo scientifici) l’interpretazione “ortodossa” soggettiva determina risultati “paradossali” se applicata a un sistema statistico di popolazione…
qual è la relazione, dunque, che lega l’ortodosso al paradosso?
eh, nelle sue rovine circolari, zio Jorge gioca a saltare il parapetto sull’abisso della metanarrazione (sogno, realtà, apparenza ed allusione), nel tentativo di insegnarci a riconoscere – vertigine – la doppiezza del reale e la singolarità nuda dell’irreale. un salto di qualità che se non va contro le leggi della fisica, comunque mette in seria discussione le certezze della logica e dei sensi.
onde per cui, hai ragione: dato un maggio, perché non scavalcarlo in oltremaggio?
è dunque possibile creare un libro immaginario, sognarlo fin nei minimi dettagli, per anni, comporlo lentamente e istruirlo, fino a offrirgli una vera e propria esistenza, una residenza reale in questo mondo?
ai post(eri) successivi l’ardua sentenza…
: )
“Qual è la relazione, dunque, che lega l’ortodosso al paradosso?”
L’insurrezione!