«Quello della delazione è l’unico genere non controllato dalla censura.»

Con Il defunto odiava i pettegolezzi (Adelphi) Serena Vitale scioglie la pillola del biografismo in un documentario destrutturato.

Più che terra del socialismo, la Russia di Vladimir Majakovskij – anche quella del “post”, del Majakovskij riabilitato – è il Paese in cui divorziare è facilissimo… per troppo amore. C’è amore ovunque, in questa storia che ci fa detective più che lettori: amanti, mariti, mogli, “compagni e compagne”… ma il cuore è solo nel petto di Vladimir. “Noi andiamo dal Padre delle Anime, ma bisogna passare accanto al drago” ammoniva San Cirillo di Gerusalemme: e draghi erano tutti – Lili e Osip Brik, Nora Polonskaja, e poi i membri gli artisti e i delatori dell’OGPU/NKVD – attorno a Majakovskij.

Vicenda in sé notevole, insomma, soprattutto per via di questi russi, di quel loro carattere di cospirazione continua in lotta o in appoggio alla macchina no-anima sovietica, di quelle identità moltiplicate da patronimici, nickname, vezzeggiativi, trascrizioni errate e ribadite fino a nuova consuetudine… E poi quella capacità innata di fare del suicidio una raffinata forma d’arte individuale (escapismo, rimedio contro la colletivizzazione coatta d’ogni cosa nell’URSS che fu?)… Laddove quel “pettegolezzi” del titolo rimanda in effetti all’immagine in brandelli di una Verità, franta in spicchi di cielo “instellato di poesia”, che osserviamo nel mosaico di uno specchio crepato a morte dal troppo specchiarcisi…

Così il libro è abitato e composto di voci, chiacchiericcio, suggestioni, congetture… La memoria è un abisso ricorsivo di vicoli e porte che portano ad altre porte, dunque altamente fictionabile: di conseguenza l’autrice scompare nella struttura dell’opera, nel nero del sapiente montaggio, di quei “segnetti grafici” – tutti quegli omissis, virgolette, trattini, parentesi d’ogni sorta che lo stesso Majakovskij malsopportava… – per poi riemergere, di tanto in tanto, indossando un misterioso e ironicamente (anti)accademico “noi”…

Un lavoro, quello della Vitale, se vogliamo assimilabile a quello di un dj, nel mettere insieme i beat e i sample altrui dagli antichi vinili – ma è un dj anche il lettore, che inevitabilmente associa e attacca una lettura all’altra… Facile per me legare Il defunto odiava i pettegolezzi al Limonov di Emmanuel Carrère (combacia pure il bordeaux delle copertine Adelphi): per via di quel doppio (ma anche triplo, quadruplo…) atteggiamento di ogni poeta e letterato rivoluzionario nei confronti della Madre-Rivoluzione, specie quando coincide con la Madre-Russia: amore, odio, terrore, poi di nuovo amore, difesa aprioristica e irrazionale, sdegno… Tradimento, bipolarismo?

E ci metto pure l’associazione con un libro letto subito prima (dunque per banale coincidenza): Il medium è il massaggio, Marshall McLuhan.
Elettrico, in quanto futurista, Majakovskij (“Non un uomo, ma un evento”…) lo era: e anche tribale e vicino al senso dell’udito perché poeta (certo, c’era anche la vista per via dei versi “a scaletta”…). Ma stiamo a ciò che diceva McLuhan, alla simultaneità e alla fusione con la consapevolezza globale che conforma l’era elettrica: la scrittura, lo sappiamo, non può produrre alcuna simultaneità in quanto lineare per natura, ma in quest’accorpamento di voci messo in scena da Serena Vitale, nell’obliquità dell’accostamento-montaggio delle fonti documentali più svariate c’è qualcosa di molto vicino, in effetti, al racconto che si scatena istantaneo, simile a un lampo, nella mente del lettore, per poi ritirarsi tra le pagine del libro come consapevolezza ormai acquisita, non più analogica.

Forse solo Annie Ernaux ne Gli anni – anche lei devota a un certo “noi”… – si è avvicinata a qualcosa di simile… Indizi di una possibile scrittura futura, che meglio si adatta e si insinua nella mente di un lettore moderno…

Così Il defunto odiava i pettegolezzi si aggiunge a un personale elenco di “libri intelligenti” (definizione che non so spiegare), in cui da tempo giacciono opere come Le cose che non facciamo (Andrés Neuman), A Calais (insieme allo stesso Limonov di Carrère), Il sistema periodico (Primo Levi), Odiare la poesia di Ben Lerner, Il diario di Andrés Fava (Cortázar), Biglietti agli amici (Tondelli), Rumore bianco (Don DeLillo), Presenze animali (James Hillman), Perdersi (Charles D’Ambrosio), Geek Sublime (Vikram Chandra), L’outsider (Colin Wilson) e chissà quali altri sto dimenticando e devo ancora incontrare…

Libri, in ogni caso, che in varia forma e a vario titolo – e a prescindere dalla data di pubblicazione – obbligano la letteratura a uscire da se stessa, a gocciolare fuori dai libri come un liquido vischioso (materia grigia?) ancorché invisibile, comunque destinato all’aria, o forse ai bit, ai byte

(Ultimo appunto: in quella Russia – non so se è così ancora oggi – il termine byt indicava la parte della vita sociale/pubblica sottratta però alla produttività… Tempo libero, insomma: cinema, teatro, passeggiate… Consumi culturali… Libri…)