Queste fotografie sono il risultato della maestria tecnica di Strand, della sua capacità di scegliere, della sua conoscenza dei luoghi che visita, del suo occhio, del suo tempismo, dell’uso che fa della macchina fotografica. Ma Strand avrebbe potuto avere tutti questi talenti e non essere, malgrado tutto, in grado di produrre fotografie simili. Ciò che ha in definitiva determinato il successo delle sue foto di persone e di paesaggi (che altro non sono se non semplici estensioni di persone solo per caso invisibili) è la sua capacità di invitare al racconto, di presentarsi al soggetto da fotografare in modo da fargli venire voglia di dire: Io sono come tu mi vedi.
Tutto questo è più complicato di quanto sembri. Il tempo presente del verso “essere” si riferisce solo al presente; ciononostante, con la prima persona singolare davanti a sé, il presente assorbe il passato che è inseparabile dal pronome. L’espressione Io sono comprende tutto ciò che ha fatto di me quello che sono, è molto più che l’affermazione di un fatto immediato: è già una spiegazione, una giustificazione, una richiesta… è già autobiografia. Le fotografie di Strand ci dicono che i suoi modelli gli hanno permesso di vedere la storia della loro vita. Ed è per questa ragione che, sebbene i ritratti siano formali e in posa, non occorre che il fotografo o la fotografia fingano un ruolo preso in prestito.
Proprio perché conserva l’immagine di un evento o di una persona, la fotografia è da sempre collegata all’idea di storia. L’ideale della fotografia, a parte l’aspetto estetico, è fissare un momento “storico”. Come fotografo, tuttavia, Paul Strand ha con la storicità una relazione tutta sua. Le sue fotografie trasmettono una sensazione di durata. All’Io sono viene dato un tempo in cui riflettere sul passato e prevedere il futuro: il tempo di esposizione non fa violenza al tempo dell’Io sono: al contrario, si ha la strana impressione che il tempo di esposizione sia la vita intera.
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John Berger | Sul guardare (trad. Maria Nadotti)