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L’epoca è tecnica. Dopo l’attentato terroristico di Macerata mi sono morso la lingua più volte – almeno quattro, come il signor Palomar – pur di evitare di scrivere qualcosa a caldo. Pur di evitare di entrare nel gioco delle interazioni – quello di Facebook – che crea oggi il discorso pubblico, almeno quello mainstream.
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Quando, negli anni della crisi finanziaria – a partire cioè dal 2008 – il web e soprattutto i social sono diventati mainstream, il discorso pubblico ha cominciato a essere inquinato dalle voci di milioni di persone per le quali in precedenza l’accesso alla costruzione del discorso pubblico stesso era semplicemente inibito: la rivoluzione digitale ha aperto gli argini e ampliato l’accesso a un certo tipo di consumi né più né meno che altre rivoluzioni tecnologiche.
Ciò a cui abbiamo assistito in seguito è stato, altrettanto semplicemente, il cortocircuito del web per come lo conoscevamo. Su Facebook non ci sono ambienti “protetti”: nonostante si insista sulle nicchie e sulle bolle, abbiamo scoperto che esistevano migliaia di persone che non la pensavamo come noi su un mucchio di cose – peggio, ci siamo scontrati con persone che pensavano cose per noi impensabili e indicibili prima d’allora, allo stesso tempo scoprendo che la “ragione” che ci davamo tra “amici” era intollerabile per altri.
Il cortocircuito si è completato quando la tv ha cominciato ad attingere al discorso pubblico rappresentato attraverso i social, ovvero un discorso frammentato, gonfiato, emotivo, sulle prime parallelo rispetto alla “realtà” fuori da Internet e poi pian piano capace di plasmarla sulla base della rappresentazione ultramediata da tv e rete stessa.
All’isteria e al cinismo politico, oggi, possiamo contribuire tutti anche col più innocuo degli strali contro questa o quella categoria di persone. L’agenda politica e le carriere di certi politici si basano su quest’assunto, che è tecnico come appunto l’epoca in cui viviamo. “Abbiamo ridotto la verticalità temporale, misuriamo meno il distacco tra il presente e il passato, i tempi della storia coabitano quasi simultaneamente nelle nostre coscienze nutrite di immagini, parole, spettacolo, forme, cinema, televisione, multimedialità”, scrive con intelligenza Davide Orecchio in un suo recente articolo.
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L’epoca è tecnica, ma preferiremmo di gran lunga che fosse politica. Che trattasse certi temi politicamente, non tecnicamente. A sua volta la politica è cinica, di un cinismo in parte nuovo, più spericolato. In altri tempi, in seguito all’attentato di Macerata si sarebbe potuto facilmente mettere alle corde le forze neofasciste o comunque eversive – in altri termini, con una buona dose di cinismo politico il Partito Democratico e persino Forza Italia avrebbero potuto approfittare di Macerata per marginalizzare Lega, Casapound e compagnia. Invece no, questo nuovo feroce cinismo politico funziona al contrario: criminale sono le vittime, eroico invece l’attentatore, e dell’attentato si giovano soprattutto le forze politiche più estremiste che un tempo sarebbero state “asfaltate”, per usare un termine terribile e molto in voga di questi tempi, dai fatti di Macerata.
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Questo estremismo razzista, xenofobo, fascista… certo un po’ tutti abbiamo impiegato molto tempo prima di iniziare a preoccuparci delle vittime. Da subito – parlo sempre di Facebook – mi è parso che per la maggior parte fosse più interessante il dibattito sul ritorno del fascismo e il commento ai commenti di Salvini Fiore Meloni, che l’identità e le condizioni dei feriti.
Solo Maurizio Acerbo di Potere al popolo è andato a far visita a queste persone, di cui del resto continuiamo a ignorare tutto a parte che appartengono alla categoria di “giovani migranti”.
Solo Diego Bianchi di Gazebo e Propaganda Live, più in generale, si prende ancora la briga di andare nei luoghi, di andare a parlare con operai migranti politici e medici di periferia per restituirceli come persone. Il feticismo per il mainstream, l’oscurità in cui lasciamo la periferia: ecco un problema generale, in un’epoca che è tecnica ma anche emotiva, sempre in rincorsa verso ciò che è già tema caldo… E riguarda tutti noi, la forma e la sostanza dei contenuti di cui fruiamo, ogni volta che una notizia ci pare automaticamente meno rilevante di un’altra.
Perciò alle prossime elezioni non voteremo dei politici, ma l’hype per quei politici. L’exploit di Lega e Casapound – probabile, ma come può esserlo una profezia autoavverante – è stato costruito tecnicamente – a botte di bot, retweet automatoci e botte vere – e mediaticamente.
Perciò limitarsi a sapere che i feriti sono neri e migranti conferma le tesi ideologiche di ognuno, quelle tesi sufficienti a commentare l’attentato terroristico di Macerata da casa, o al più in metro dallo smartphone.
Perciò, soprattutto, l’epoca è tecnica ma la tecnica, di questi tempi, alla lunga diventa una passione triste: hai voglia, Mark Zuckerberg, a cambiare l’algoritmo per donarci maggior “time well spent” sulla tua piattaforma: la tua creazione è divisiva, irrimediabilmente divisiva, guarda le nostre bacheche dopo Macerata; il medium fondato sull’interazione non può che portare ricerca ossessiva di consenso personale e soprattutto attriti tribali, per citare McLuhan, e perciò disagio nei più pacifici e furore infinito nei più frustrati – con, sullo sfondo, un perfetto controllo reciproco che torna utile tanto alle grandi corporation quanto agli stati nazionali (in attesa che le due entità vengano finalmente a coincidere).
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C’è un’atmosfera e c’è un sistema invisibile, un Grande Altro per citare Mark Fisher che cita Zizek (e per tornare così a Kafka), che sembra muovere metafisicamente giornalisti, lettori, consumatori e utenti verso il fondo del piano inclinato. Potrebbe essere la mano invisibile del capitalismo, sempre lei, e allora a che pro scannarsi tra pari? Dico l’indicibile se affermo che nel Paese delle stragi di Stato lo schema è chiaro, e cioè mettere sullo stesso piano fascismo e antifascismo (gli “estremi”) per poter governare indisturbati in favore di pochi? Quei pochi apparentemente moderati che pure in passato – così dice la Storia – non hanno esitato a foraggiare o lasciar passare grottesche e sanguinarie dittature delle minoranze.
Al fondo del piano inclinato, si badi, c’è la guerra in casa in un’epoca che è così tecnica da non poter essere di pace, quanto piuttosto di guerre lontane. Ce lo ricordano proprio i cittadini siriani afghani iracheni ecc. in fuga da quelle terre, che non sono certo patrie votate al conflitto per costituzione: come sappiamo, la guerra se la sono trovata in casa da un giorno all’altro, proprio come noi italiani in passato.
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Se di ideologie vogliamo parlare, allora, proprio il capitalismo, per quanto utopico anch’esso – è davvero realizzato, con tutti quegli aiutini di Stato che ha sempre ricevuto? – mi sembra comunque l’unica in salute. Il fascismo di ritorno che oggi si sente ronzare per l’aria – ma non per le strade, non ancora così pervasivo come si vorrebbe far credere sui media – è per lo più assenza di logica – spesso strumentale, ma pur sempre assenza di logica. Ascoltare Meloni Salvini e compagnia significa sottoporsi soprattutto a discorsi che mettono in relazione questioni assolutamente slegate tra loro, troppo spesso a partire da numeri falsi. Non devo certo spiegarlo io, che l’episodio di cronaca nera è da scindersi da valutazioni su temi di ordine più generale.
Ancora è assenza di logica, per dei fascio-corporativisti, l’ennesima alleanza col neoliberista Berlusconi. Ed è assenza di logica, soprattutto, immaginare un sistema in cui le donne si limitano a procreare, gli omosessuali vivono nascosti, il regime economico è protezionistico in un mondo finanziariamente iperconnesso. Ma soprattutto: un sistema in cui il piacere, se è lecito, è legato alla violenza e alla sopraffazione, continuamente stuprato, a sua volta, dal piacere che possono dare le merci e in generale il way of life capitalista.
Può esistete un sistema del genere? Sì, certo: in una teocrazia.
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La teocrazia e gli stati totalitari in genere – l’Arabia Saudita, la Corea del Nord e l’assurda Turchia di Erdogan sono alcuni esempi – sono assolutamente compatibili col capitalismo. Lo sappiamo, anzi: il capitalismo, sempre stando a Fisher, è in grado di servirsi di qualsiasi ideologia pur di propagarsi come “cultura” – anche fintamente antagonista, all’occorrenza (i Clash di Rock the Casbah usati contro ayatollah e compagnia). Ma gli stati totalitari restano semplicemente demenziali, e prima o poi crollano sotto le loro contraddizioni.
Se l’epoca fosse politica, questo fascismo di ritorno si potrebbe sfidare sul piano della logica, della consequenzialità del pensiero. E sul piano politico, ovviamente: il lavoro la globalizzazione l’automazione le grandi migrazioni, ad esempio. Tutti temi che sono entrati in scena da una porta di sinistra sul finire degli anni ’90, sono usciti sempre da quella porta dopo il G8 di Genova, nel 2001, per poi rientrare da una finestrella di destra in questo decennio, giusto dopo la crisi finanziaria globale.
È cambiato il vestito, ma parliamo ancora – senza intravedere soluzioni – delle stesse cose. Senza intenderci, senza trovare alternative. Anzi: pensando sempre meno all’idea che ci possano essere delle alternative. Il discorso sul mainstream e sulla rincorsa dell’attualità e delle visualizzazioni e dei follower e dei like è questo. È ciò che è, e va preso e goduto così com’è. Questo vale anche per le gerarchie tematiche attorno all’attentato di Macerata – prima le aberranti reazioni politiche, poi, se c’è tempo, le storie dei feriti.
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Lo slancio d’utopismo che caratterizza alcune epoche umane – “Un altro mondo è possibile”, si diceva nei social forum di fine anni ’90 – si esaurisce in questi anni nel rancore del populismo di pancia. E così a noi, da quest’altra parte della barricata, non restano che tre alternative: affidarci, con sarcasmo postmoderno, all’erotizzazione del racconto della struttura, racconto che finisce per diventare sovrastruttura a sua volta; se del tutto spoliticizzati, possiamo invece ingollare distopie su distopie – l’unica forma di stupore, di meraviglia ideologica ancora in giro; oppure, su un piano semi-politico, l’ultima possibilità è lasciarci concludere nell’asfissiante categoria dell’anti-: antisistema, antifascisti, anticapitalisti, con le sottocategorie di antiberlusconiani ieri e antitrumpiani oggi.
Manca insomma un discorso nostro. Nostro a tal punto da rappresentare di per sé un antidoto contro il fascismo di ritorno e il quasi proverbiale Ur-fascismo di Umberto Eco, tenendo però presente che ogni fascismo è anche un prodotto determinato da una data epoca storica. Oggi che siamo consumatori più che cittadini, ci sono immaginari, estetiche e soprattutto consumi che creano grandi intese e inedite alleanze, a livelli psichicamente molto profondi, tra fascisti e antifascisti.
Per fare qualche esempio, Il Padrino, Fifa 18 e Batman piacciono a me quanto a quel vigliacco vestito di nero che m’ha rigato la macchina qualche anno fa, e non perché Casapound si sia impadronita di questo o quel film o dell’opera di questo o quell’altro autore: è perché il capitalismo mette tutto sotto il naso allo stesso modo, a tutti: Pasolini (non) è morto invano.
(A proposito del Cavaliere Oscuro: la vicenda del villain Bane nell’ultimo film di Batman diretto da Christopher Nolan è la perfetta metafora di certe dinamiche populiste di oggi, nonché la risposta alla domanda: chi si appropria davvero del mio disagio, quando sbraito a casaccio?)
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Nella categorie fascisti e antifascisti finiscono galassie di movimenti e persone, soprattutto persone, molto diverse tra loro. In un articolo uscito su Internazionale un Christian Raimo più felicemente d’indagine che d’opinione fa un’interessante rassegna di movimenti fascisti odierni: io aggiungo che non è raro trovare neri e omosessuali razzisti, quando non apertamente fascisti, e che non è improbabile che la stessa Lega che un tempo odiava i terroni e oggi li corteggia, un domani possa accogliere nelle sue fila – per opportunismo politico, s’intende – anche africani e musulmani in vista di una battaglia, perché no, contro i marziani.
Allo stesso modo, tra noi antifascisti pure, c’è di tutto. C’è chi vuol menare le mani già su Facebook, chi fa come se il fascista non esistesse e però lo vuole morto, chi è sempre preso dalla misurazione del tasso di antifascismo nel sangue altrui, chi ancora prova a sforzarsi di capire e distinguere, un po’ stanco di quell’antifascismo di maniera che negli ultimi vent’anni ha gridato così tante volte al lupo che oggi nessuno, un po’ beckettianamente, crede più che il lupo venga davvero; un tipo d’antifascismo, questo fatto soprattutto di estetica e feticismo, che si riattizzava soprattutto, giustamente, quando non c’era nessun presidente del consiglio a commemorare il 25 aprile – quando cioè il presidente del consiglio era Silvio Berlusconi, vero “mandante morale” o meglio vettore culturale di ciò che viviamo oggi, soprattutto oggi che Berlusconi è assurto definitivamente a icona pop, dunque a protagonista assoluto di un immaginario non più nazionalpopolare ma drammaticamente trasversale.
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Mentre scrivo queste righe – è sabato 10 febbraio – seguo in diretta la manifestazione antifascista di Macerata, quella prima respinta dalle istituzioni e poi autorizzata e andata in scena comunque. E per fortuna, questo voglio dirlo.
Seguo la diretta della manifestazione da una pagina Facebook e dal sito di Repubblica contemporaneamente, dunque sullo stesso dispositivo su cui sto scrivendo; Repubblica, intanto, titola in home: “Macerata invasa da corteo antirazzista. ‘Siamo 30 mila’. Gruppo inneggia alle foibe”, il che è molto ambiguo da parte del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari – mentre più sotto un editoriale di Ezio Mauro mette comunque in riga il PD sulla questione fascismo/antifascismo.
Negli stessi minuti, invece, sul sito dell’ANSA la manifestazione c’è giusto di sfuggita, accompagnata agli scontri a Torino nel corso della giornata in memoria delle foibe. Nella colonna centrale i temi principali sono il temporaneo disgelo tra Coree, i tre nigeriani fermati per l’omicidio di Pamela, il Milan che vince 4-0 sulla Spal, l’F16 israeliano abbattuto in Siria, il record d’ascolti di Sanremo e così via. Sulla colonna destra attira la mia attenzione questo titolo: “La moda con hijab ai grandi magazzini”.
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È chiaro che occorre un antidoto contro il fascismo, che apra però alla possibilità di immaginare sé stessi oltre il mainstream, a immaginare un discorso nostro. I tempi lo richiedono. Le mie elucubrazioni e analisi più o meno critiche o oscure potrebbero non bastare. Potrebbe essere troppo tardi. Eppure nel mio ragionamento provo a rifarmi, nel mio piccolo, a Primo Levi. Ecco, per me Primo Levi è certamente un antidoto contro il fascismo. La sua capacità d’analisi, la sua voce gentile, la sua curiosità. E lo è in particolare nel racconto Vanadio, contenuto nel Sistema periodico, in cui Levi è costretto a confrontarsi, anni dopo la guerra, con un nazista che aveva incontrato nel lager: non un SS o un feroce gerarca, ma un “semplice” responsabile del laboratorio in cui Levi era schiavo e lavoratore. Il tedesco è pentito in quel modo ambiguo che caratterizzò parecchi suoi connazionali dopo la guerra, dunque per Levi non rappresentare il “tedesco perfetto” – non l’incarnazione del male assoluto con cui avrebbe voluto fare i conti a guerra finita (“Ma esistono forse ebrei perfetti, del resto?”, si chiede pure Levi).
“Mi dichiaravo pronto a perdonare i nemici, e magari anche ad amarli”, così Primo Levi racconta la minuta della nuova lettera che prepara dopo un primo scambio epistolare col tedesco, “ma solo quando mostrino segni certi di pentimento, e cioè quando cessino di essere nemici. Nel caso contrario, del nemico che resta tale, che persevera nella sua volontà di creare sofferenza, è certo che non lo si deve perdonare: si può cercare di recuperarlo, si può (si deve!) discutere con lui, ma è nostro dovere giudicarlo, non perdonarlo”.
“Si può – si deve! – discutere”, scrive Primo Levi. E aggiungo anche: separare, pesare, distinguere, tre operazioni che lo scrittore-chimico Levi compiva tanto in laboratorio che sulla pagina. Tre azioni per decodificare e comprendere un mondo che, tornando a oggi e citando il Charles D’Ambrosio dell’introduzione a Perdersi, “sta facendo appello alla mia indolenza e al mio vuoto interiore, e che chiede solo che io mi arrenda”. Un mondo che richiede continuamente superficialità, ricerca del consenso personale, interiorizzazione di ogni conflitto all’interno di sé o al più all’interno di quella zona mediatica che è anche la zona grigia cui si rivolgono i politici più cinici per raccattare consensi.
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Ho volutamente detto poco del racconto Vanadio, perché il mio invito è leggerlo e leggere, in generale, Primo Levi. È difficile pensare che un Paese che abbia dato i natali a un uomo come Primo Levi non possa essere migliore di come si autorappresenta o viene rappresentato oggi sui social media e in tv.
Vedete, sto facendo appello alla responsabilità individuale – leggere un racconto di uno scrittore ebreo morto suicida un bel po’ di anni fa – il che equivale a non richiamarsi a nulla di specifico: eppure non vedo altra soluzione. Prendersi la responsabilità delle cose che oggi si urlano sui social e per strada, ma soprattutto sui social, è un inizio. Chiedersi se ciò che oggi è periferico non meriti più attenzione. Ma soprattutto scegliere le parole, ammettere che spesso non si capiscono o si equivocano quelle altrui. Lasciare andare un po’ di sé stessi, perché non è poi così importante. Non cedere. Non cedere neppure davanti a un “A noi” o un “Allahu akbar” urlato per strada dopo una sparatoria, e aspettare, mordersi la lingua, e nel frattempo chiedere con fermezza che si indaghi a fondo su ogni attentato terroristico, che si seguano i soldi e le armi e che lo stato di diritto, su cui si fondava l’Europa della nostra speranza, venga rispettato per tutti come un esempio di splendore costituzionale. Il terrore e lo scontro sociale arrivano quando si inizia a lasciare sullo sfondo l’idea che ci sia sempre un po’ di noi negli altri; quando sfuma l’idea che ci sia dell’altro – in termini sociali, culturali, economici, persino di consumi – rispetto a ciò che dobbiamo sorbirci ogni giorno. (È ciò che è, e va preso e goduto così com’è.)
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Costretto in casa da un fastidioso acciacco fisico, una volta finito di scrivere queste righe i miei personali terrori torneranno a essere i pallini rossi accesi dei LIVE dei quotidiani online, i commenti su Facebook, i soldi per le medicine.
Sono contento che tu non abbia replicato “a caldo” sui fatti di Macerata, ci saremmo persi un pezzone come questa, dettagliato, aperto, chiaro, puntuale e, soprattutto, lucido.
Grazie, Riccardo!