Sono sempre più a disagio su Facebook, nonostante lavori coi social ormai da qualche anno (o forse proprio per questo: la scrittura per il web e in particolare per i social, per me, è il classico lavoro fatto “con la mano sinistra”, cioè su commissione, che in passato gli scrittori svolgevano in pubblicità). Parlare di politica su Facebook, poi, è come fare una rapina con pistole ad acqua (cosa che resta a tutti gli effetti un reato). C’è però una cosa che voglio dire, forse perché ieri sera non ho fatto altro che passare da Twitch agli account Instagram di Salvini, Renzi e Di Maio cercando di capire come e quando questi ultimi hanno iniziato a crescere o a autodistruggersi (come nel caso di Renzi).

E la cosa è questa: qualsiasi discussione politica oggi non può non passare da una riflessione sulle piattaforme digitali su cui viene fatta. Luca Morisi, l’uomo dietro la propaganda della Lega ora al Ministero dell’Interno con Salvini (vi rendete conto?), è uno cresciuto scrivendo di videogiochi su Zzap!, ha un dottorato in filosofia e ha lavorato, oltre che all’università, nella progettazione e gestione di sistemi informatici per gli enti pubblici in regioni leghiste. Non è un genio: è solo uno che sta sfruttando, senza grande cura per la deontologia professionale, i meccanismi del marketing e della comunicazione – non solo politica – contemporanei.

Questi meccanismi si basano su dipendenza (degli utenti), bassa preparazione all’uso del mezzo (sempre degli utenti), profilazione ed estrazione dei dati (ancora degli utenti), polarizzazione delle opinioni (sì, sempre da parte degli utenti), analisi quantitativa e mai qualitativa dei contenuti (ha ragione chi ha più like e più follower, magari comprati, magari inesistenti, magari semplici bot). Prima della Bestia morisiana questi meccanismi li sfruttava già il Movimento 5Stelle (ci sono aderenti al movimento che credono che Messenger sia una piattaforma di messaggistica istantanea creata da Casaleggio, e che i contenuti che veicolano continuamente in privato siano la più classica e raffinata delle azioni di controinformazione) ma anche, non dimentichiamolo, e seppure in modo grezzo, il PD renziano.

Del resto, tutti noi passiamo il tempo a lasciarci impressionare dal numero di like e seguaci degli altri: dagli amici fino agli youtuber ai politici e agli attori (e sì, un po’ anche gli scrittori). Sto semplificando molto, ma vi assicuro che qualsiasi social media manager spregiudicato al punto giusto, con un buon budget e una piattaforma informatica decente potrebbe fare lo stesso lavoro che fa oggi Morisi (al quale, a volte, mi piace pensare come a un accelerazionista infiltrato con l’obiettivo di portare il sistema al collasso per poi far ripartire tutto da zero).

Chiunque sarebbe capace di fare una ricerca di “mercato”, scovare i temi politici oggettivamente più caldi – disuguaglianze, crisi economica e rappresentativa – e pomparli creando una serie di meme, video, account e pagine fake da cui far partire la propaganda. Chiunque. E voi abbocchereste come abboccate ogni giorno alla fesserie quotidiane di Salvini o Di Maio oggi, di Renzi ieri, di Berlusconi ieri l’altro.

Il gioco si basa sul fatto che sia come un videogioco, appunto (ed ecco la mia tuicciata di ieri sera). Non è la tv, che a questo punto diventa solo un tassello da sfruttare nella più ampia strategia digitale: qui potete interagire. Litigare. Mipiaciare. Potete soprattutto trovare un antidoto alla solitudine e alla scarsa autostima che vi portate dietro dai tempi delle scuole medie. Potete esaltarvi quando centinaia di persone mettono like a un vostro post, dunque sentirvi amati. È un desiderio che abbiamo tutti, non biasimo nessuno. Funziona così perché, ancora una volta, contano i numeri, anche se sono falsi, e questi numeri servono a lavorare sulla percezione: un partito che ha preso il 17% come l’ex Lega Nord rebrandizzata in Lega – a quanto arrivò il PRC di Bertinotti, non più tardi di una quindicina d’anni fa? – dev’essere percepito come un’armata invincibile. Come il PD di Renzi, che nemmeno due autunni fa sembrava poter governare per vent’anni.

Poi sappiamo com’è andata: e questo è un altro dato interessante. Abbiamo cicli politici brevissimi, anche perché questi strumenti digitali sono molto utili nel raccattare consenso ma molto meno quando si tratta di conservarlo: quando cioè sei al governo. Quando le cose andranno meno bene, che tipo di commenti leggeremo sotto le foto di Salvini in vacanza con la Isoardi? Non oso immaginare. La Lega e i 5Stelle subiranno la polarizzazione che loro stessi hanno fatto esplodere?

Questo sistema si basa sulla vostra ignoranza tecnologica. Sul delay, sul kitsch e sul trigger cognitivo. Sul fatto che ogni volta che succede un fatto x, tre persone y che la pensano diversamente insorgeranno indignate dando visibilità al politico z che ha solo da guadagnare dal fatto che il fatto x si ripeta ancora e ancora. In altri termini, oggi milioni di persone sono esposte a meccanismi e dinamiche che alcuni di noi hanno sperimentato per la prima volta negli anni ’90 nei forum, nelle chat e poi nei blog, e altri prima ancora di noi nei primi sistemi di rete e negli ambienti hacker – non cracker! – e geek; e prima, molto prima ancora, queste dinamiche esplodevano nelle più piccole piazze di paese, nelle taverne e, in parte, nei dibattiti dopo il cineforum (“Il dibattito no!”).

Di conseguenza, il problema non si risolve con la morte politica di chi oggi è al governo: se anche domani ci sarà un nuovo politico di destra sinistra o centro che vi farà meno schifo ma utilizzerà questo buco che avete nel cervello e nel cuore… be’, non avremo fatto grandi passi in avanti.

Non sono tra i fan del cosiddetto determinismo tecnologico, ma (che è come dire: “Non sono razzista, ma…”) credo che la soluzione passi da una maggiore preparazione in campo digitale e dalla consapevolezza che ci troviamo su piattaforme digitali abbastanza imperscrutabili perché private. Le falle nella sicurezza e nella privacy di Facebook sono un fatto abbastanza noto, e in generale Facebook è un posto pieno di bug che tra non molto potrebbe cedere il passo a… a cosa, di preciso? Probabilmente a un sistema pulviscolare, più frammentato, meno di massa – cosa che già è, non fosse che Instagram e Whatsapp sono di proprietà di Facebook e l’ambiente Google sappiamo come funziona –, in cui ogni utente passerà il tempo su piattaforme specializzate su un tema e con meno gente dentro. In quel caso sarà la comunicazione politica a doversi riorganizzare, e il modello 5Stelle o il modello della Bestia di Morisi non avranno più molto senso. Al contrario, se il modello di piattaforma di massa dovesse restare in piedi e anzi espandersi, con un’unica grande piattaforma statale o para-statale in grado di erogare servizi ai cittadini, oltre che di farci eleggere i nostri rappresentanti in parlamento… Una prospettiva “orwelliana”, come si suol dire, cui pure Facebook tende da un po’, per non parlare di WeChat in Cina – e c’è sempre da capire il ruolo della realtà virtuale in tutto questo.

Allo stato attuale, per quel che vale ripongo un po’ più di fiducia nei luoghi in cui la dimensione ludica dell’esperienza online è esplicita (Twitch è uno di questi, ma in fondo lo è anche Instagram) oppure nelle pagine e negli account istituzionali gestiti non in malafede, per così dire, ovvero senza tentare in tutti i modi di far leva sugli istinti e soprattutto sulla poca voglia di approfondire da parte dell’utenza di riferimento. Recentemente ho collaborato con diversi enti pubblici – amministrazioni comunali, istituzioni culturali – e ho avuto conferma di quanto la comunicazione istituzionale possa fare per rendere un po’ meno squallido il discorso pubblico su Facebook: dalla progettazione di un bando fino a quella dei “paratesti” con cui promuoverlo o promuovere l’erogazione di un servizio sui social, per fare due esempi, se “sfidi” i cittadini ad andare oltre la contestazione vomitata col Caps Lock ingranato, forse col tempo ne beneficerà un intero sistema, grande o piccolo che sia. In alternativa, non resta che aspettare la morte – fisica, stavolta – del modello attuale su cui si basa Internet, oppure della generazione che per la prima volta ne sta sperimentando un uso di massa.