L’11 aprile del 1987 Primo Levi viene trovato morto al piano terra della sua casa di Torino. Si è suicidato, dicono, gettandosi dalle scale. Ma la portinaia riferisce che Levi, seppur stanco, quel giorno era apparso cordiale come sempre (e come in ogni suo testo, diremmo da lettori). Un amico pure, il lunedì successivo avrebbe ricevuto una lettera scritta da una persona tutt’altro che intenzionata a togliersi la vita, almeno in apparenza. Potrebbero essere state le vertigini, allora, di cui lo scrittore e chimico torinese soffriva. Ma a quanto pare Levi soffriva anche di depressione, sin da ragazzo, e da qualche tempo aveva dovuto sospendere i farmaci per via di un intervento chirurgico. Non può essere un caso, allora, che avesse da poco rifiutato la presidenza di Einaudi, e che pare non riuscisse più a scrivere…
La biografia di un poeta è nella sua opera, ha detto qualcuno. E nelle sue opere minori soprattutto, aggiungo io: chissà se è anche il caso di Primo Levi, ma in quelle opere troviamo spesso le tracce dell’uomo, spellate dalle manie di grandezza dell’artista.
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Nella sua casa di Torino in corso Re Umberto 75, Primo Levi aveva passato l’intera vita. Come “una patella incollata al suo scoglio”, scriveva nel pezzo che apre L’altrui mestiere, con “pochissime involontarie interruzioni”. Una di queste interruzioni era stata un viaggio di lavoro in Russia. L’altra il Lager.
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“Pensate talvolta che i vostri problemi possano essere risolti col suicidio?” è la domanda che induce pudore (o imbarazzante esibizionismo) in chi l’accoglie, e che oggi ci rivolgono persino i social network, con tanto di bugiardino di auto-aiuto (per noi e per gli amici: l’appassionato di etimologia Levi sarebbe stato ben felice, oggi, di approfondire l’ampliamento del campo semantico di alcune parole d’uso corrente in ambito digitale).
Ma il fatto è che i discorsi sul suicidio sono sempre porosi per gli aspiranti. Se non per un aspirante, quantomeno per chi è in tregua, perso in mare aperto sulla zattera che traghetta dall’ora del dolore apparentemente perduto a quello che c’è dopo. E cosa c’è dopo?
Per alcuni può essere una graduale educazione al piacere, per altri è il semplice racconto dei guai passati in un’inedita quanto insperata situazione di sicurezza. “È meglio essere sani che essere insani”: si è spesso debuttanti in questa fase nuova, si deve imparare, costantemente a disagio, e non sempre si riesce.
“Ibergekumene tsores iz gut tsu dertselyn”, “Bello è raccontare i guai passati”, c’è scritto in epigrafe al Sistema periodico, che su quest’assunto basa grossa parte del suo andamento. Lo stesso succede in L’altrui mestiere. Due opere minori, soprattutto quest’ultima, se paragonate ai testi più celebri di Levi – minori per diffusione, in ogni caso, non certo per qualità letteraria.
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La letteratura, o meglio la scrittura, per Primo Levi è una forma di comunicazione. “La scrittura serve a comunicare, a trasmettere informazioni o sentimenti da mente a mente, da luogo a luogo e da tempo a tempo, e chi non viene capito da nessuno non trasmette nulla, grida nel deserto. Scrivere è un servizio pubblico, e il lettore volenteroso non deve andare deluso”.
Pertanto la scrittura deve volgere al “massimo di informazioni col minimo ingombro”.
Ingombro, fastidio, spazio occupato quasi abusivamente da chi non dovrebbe neppure esserci: anche una vita può essere ingombrante, la tentazione quella di sottrarsi per ridurre il fastidio, il rumore di fondo.
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È sulla natura di quel fastidio, di quell’ingombro che sappiamo poco. Il Lager, ciò che Levi ha visto dentro e fuori da esso, nel peccato di essere sopravvissuto. Togliersi di mezzo per aver visto troppo o addirittura vissuto a scapito di qualcun altro: su questo non possiamo dire. “Pensate talvolta che i vostri problemi possano essere risolti col suicidio?”, è ancora la domanda per chi è su quella zattera in transito sul mare oscuro, da una costa all’altra della natura umana.
La testimonianza è preferibile alla teoria, allora: in questo il racconto forse non può redimere, ma incarnarsi come dovere, come abito che informa chi porta il racconto, le storie. Perciò lo scrivere dev’essere chiaro, razionale, per “trasmettere informazioni o sentimenti da mente a mente”, pur nella consapevolezza che, nella “contesa infinita tra chi scrive e chi prescrive come si deve scrivere, dar legge al narratore è almeno inutile”, e senza neppure dimenticare che “anche nelle loro incarnazioni più ignobili (gli ibridi sesso-nazismo o patologia-pornografia), i libri non possono provocare che danni scarsi, certo inferiori a quelli prodotti dall’alcol o dal fumo o dallo stress aziendale”.
Impossibile, in ogni caso, sottrarsi al compito. E il compito è lasciarsi alle spalle la lugubre celebrazione della cenere per concentrarsi sulla trasmissione del fuoco: per chi viene dopo, per chi non si è ancora incontrato.
“Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno. Finché viviamo, e qualunque sia la sorte che ci è toccata o che ci siamo scelta, è indubbio che saremo tanto più utili e graditi agli altri e a noi stessi, e tanto più a lungo verremo ricordati, quanto migliore sarà la qualità della nostra comunicazione”.
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La chiarezza di Levi non è l’illusione della fede in un mondo entusiasticamente riformabile. La luce non può oscurare l’oscurità, non del tutto. Oscurità che è non solo necessaria, ma inevitabile. Di default. Levi non è un nonnetto scemo che racconta i tempi andati, insomma. La luce è sì preferibile, così come “l’effabile è preferibile all’ineffabile, la parola umana al mugolio animale” (ed “è meglio essere sani che essere insani”), ma l’oscurità permane, quantomeno come residuo, come condizione di partenza.
Perciò il consiglio leviano ai giovani scrittori è di non aver paura “di fare un torto al proprio Es imbavagliandolo, non c’è pericolo, l’inquilino del piano di sotto troverà comunque il modo di manifestarsi, perché scrivere è denudarsi: si denuda anche lo scrittore più pulito”, perché “siamo comunque condannati a trascinarci dietro, dalla culla alla tomba, un Doppelgänger, un fratello muto e senza volto, che pure è corresponsabile delle nostre azioni, quindi anche delle nostre pagine”.
Più in là ancora Levi si spinge quando si tratta di raccontare la scrittura di finzione: “Il personaggio è una tua spia, rivela una parte di te, le tue tensioni, come quegli incastri di vetro che si usano per rivelare se la crepa di un muro è destinata ad allargarsi. Un tuo modo di dire io”. Questo io-lui, “il non-esistente”, “è lì, c’è, pesa, spinge contro la tua mano: vuole e disvuole, silenzioso e testardo”. Ed è una fonte irriducibile cui attingere per approdare al lato chiaro della scrittura.
“Questa fonte di inconoscibilità e di irrazionalità che ognuno di noi alberga dev’essere accettata, anche autorizzata a esprimersi nel suo necessariamente oscuro linguaggio, ma non tenuta per ottima o unica fonte di espressione”. Perciò “dopo novant’anni di psicoanalisi, e di tentativi riusciti o falliti di travasare direttamente l’inconscio sulla pagina, io provo un bisogno acuto di chiarezza e razionalità. Non è detto che un testo chiaro sia elementare; può avere vari livelli di lettura, ma il livello più basso, secondo me, dovrebbe essere accessibile ad un pubblico vasto”.
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“Stanco di ‘densi impasti magmatici’, di ‘rifiuti semantici’ e innovazioni stantie”, in Dello scrivere oscuro – testo chiave tra i tanti, splendidi, de L’altrui mestiere – Primo Levi cerca di mettere a fuoco cos’è la chiarezza. Per prima cosa, non va confusa con la presunta sincerità del cuore. “Non è vero che il solo scrivere autentico è quello che ‘viene dal cuore’: il linguaggio del cuore è capriccioso, adulterato e instabile come la moda, di cui in effetti fa parte… Non è un linguaggio affatto, al più un argot, se non un’invenzione individuale”.
E un linguaggio, in quanto tale, va articolato. “Non è vero che il disordine sia necessario per dipingere il disordine”: articolato non può essere l’urlo, dal momento che “urla Giacobbe sul mantello insanguinato di Giuseppe; in molte civiltà il lutto gridato è rituale e prescritto. Ma è un ricorso estremo, inetto e rozzo se inteso come linguaggio poiché tale, per definizione, non è: l’inarticolato non è articolato, il rumore non è suono”.
Urgenza e intensità pure allontanano dalla chiarezza. “Spesso lo scrivere rappresenta un equivalente della confessione o del divano di Freud. Non ho nulla da obiettare a chi scrive spinto dalla tensione: gli auguro anzi di riuscire a liberarsene così, come è accaduto a me in anni lontani. Gli chiedo però che si sforzi di filtrare la sua angoscia, di non scagliarla così com’è, ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge: altrimenti rischia di contagiarla agli altri senza allontanarla da sé”.
“…Ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge”: se questo di Levi è uno schiaffo a chi scrive per confessione o per sfogo, è uno schiaffetto gentile, quasi un buffetto.
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In quanto forma di comunicazione, di “servizio pubblico”, la scrittura dev’essere orientata alla comprensione altrui. Irriformabile perciò è la burocrazia, lingua del potere più oscuro e mefitico, in quanto progettata per garantire inaccessibilità e confermare gerarchie. Per esser compresi la mediazione è necessaria, e per questo neppure il canto è automaticamente sinonimo di chiarezza.
Tra i poeti Levi rifiuta, per ragioni diverse, l’oscurità di Ezra Pound, Georg Trakl e Paul Celan. Ma se a Trakl e Celan concede comunque una certa dignità letteraria, netto è il rifiuto per Pound. Il quale, “per essere sicuro di non essere compreso scriveva a volte persino in cinese, e sono convinto che la sua oscurità poetica aveva la stessa radice del suo superomismo, che lo ha condotto prima al fascismo e poi all’autoemarginazione: l’una e l’altro germinavano dal suo disprezzo per il lettore”.
Un disprezzo del tutto assente in Levi, che col “lettore volenteroso” è gentile, complice, pronto ad affidarsi all’altrui intelligenza, e che al contrario nel caso di Pound è riconducibile all’assenza di logica, forse a un desiderio di autodistruzione se non addirittura all’infermità mentale: “Chi non sa ragionare dev’essere curato, e nei limiti del possibile rispettato, anche se, come Pound, si induce a fare propaganda nazista contro il proprio paese in guerra contro la Germania nazista di Hitler: ma non dev’essere lodato né indicato a esempio, perché è meglio essere sani che essere insani”.
Insanità, disperazione, depressione. Suicidio? Una volta, candidatosi per un posto di lavoro, Levi ha dovuto sostenere un test psicoattitudinale, uno dei primi in Italia. Tra macchie di Rorschach e domande più o meno retoriche, ecco quella diretta: “Pensate talvolta che i vostri problemi possano essere risolti col suicidio?”. La risposta, spiritosa, quasi ambigua col senno di poi: “Forse sì, forse no, comunque non lo vengo a dire a te”.
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A proposito di Trakl e Celan il discorso, pur diverso nell’analisi rispetto a quanto scritto su Pound, è lo stesso nelle conclusioni. “Il comune destino di Trakl e Celan fa pensare all’oscurità della loro poetica come a un pre-uccidersi, a un non-voler-essere, a una fuga dal mondo, a cui la morte voluta è stata coronamento. Sono da rispettarsi, perché il loro mugolio animale era terribilmente motivato” da questioni evidentemente storiche e generazionali. In particolare, “il canto di Celan è tragico e nobile, ma confusamente: penetrarlo è impresa disperata. Un riflesso dell’oscurità del destino suo e della sua generazione, e si va addensando sempre più intorno al lettore stringendolo in una morsa di gelo e di ferro. Il rantolo di un moribondo, un disarticolato balbettio… Ci defrauda di qualcosa che doveva esser detto e non lo è stato, e perciò ci frustra e ci allontana. Io penso che Celan debba essere meditato e compianto più che imitato. Se il suo è un linguaggio, è buio e monco, quello di chi sta per morire ed è solo”.
Essere defraudati di qualcosa che non è stato detto: un rimpianto per la scrittura altrui che è quasi un rovesciamento del togliere il fastidio, l’ingombro di una vita abusiva. Ma noi lettori in questa suggestione tremiamo: tremiamo nel leggere il limpido e razionale Levi che quasi prega per Celan nel momento in cui racconta la “morsa di gelo e di ferro” della sua scrittura come preludio al suicidio; specie se leggendo quelle righe pensiamo all’oscurità accuratamente nascosta che supponiamo abbia accompagnato lo stesso Levi fino alla fine.
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Supponiamo, certo, ma a posteriori: perché quando si è vivi, anche solo in apparenza, l’ombra della tragedia – quella che si porta, quella che sarà, se sarà – sembra lontana, poco credibile. Leggerlo in vita, Levi, significava averlo presente in carne, ossa e parole, mai immaginando quel finale: ci si poteva persino litigare.
Così l’oscuro, barocco e infernale Giorgio Manganelli, dopo aver letto Dello scrivere oscuro, definì Levi un “terrorista assistenziale”. Levi replicò con ironia leggera, da par suo, a quella che oggi sembrerebbe una sorta di accusa di buonismo ante litteram, rettificando in parte sulla chiarezza: meglio definirla razionalità, in effetti, posto che neppure l’autore è in grado di comprendere appieno la sua opera (proprio come il suicida poco o niente sa del suo ultimo gesto, a pensarci bene).
E dunque almeno su quest’ultimo punto, concludeva Levi, lui e Manganelli potevano dirsi d’accordo: chiarendo però che se per l’infernale Giorgio l’incomprensibilità era una condizione addirittura desiderabile, per lui restava invece una gran seccatura.
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“Beninteso, essere chiari è condizione necessaria ma non sufficiente: si può essere chiari e noiosi, chiari e inutili, chiari e bugiardi, chiari e volgari… Il discorso fra uomini, in lingua d’uomini, è preferibile al mugolio animale, e non si vede perché debba essere meno poetico di questo”. In questa insistenza un po’ indignata sembra risuonare un monito a sé stessi, un’altra preghiera stavolta forse per il Levi ancora accompagnato da quel “non-esistente che vuole e disvuole, silenzioso e testardo”, forse rimasto indietro all’abominio del Campo Assoluto, al peccato di essere sopravvissuto al genere umano o anche solo ai compagni perduti nel Lager. Particolare e generale raccontano spesso la stessa Apocalisse: il dubbio rimane, comunque.
“Tutto può darsi: che uno scritto oscuro per il suo stesso autore sia luminoso e aperto per chi legge; che uno scritto non compreso dai suoi contemporanei diventi chiaro e illustre decenni e secoli dopo”. Il dubbio rimane, certo, ed è dubbio di forma e di sostanza. La morte di Levi è un mistero, non un enigma: non si risolve, non conosce scioglimento. E come ogni mistero ha una sua luce che irradia persino dalle opere minori, nel sorriso di un torinese schivo e gentile, abbarbicato alla parola come all’ultimo legno in mare aperto.
(Fonti indispensabili per la scrittura di questo pezzo, pubblicato l’11 aprile 2017 su minima&moralia, sono stati questo articolo di Giacomo Papi insieme a diversi interventi di Marco Belpoliti disponibili in rete. Oltre che da Dello scrivere oscuro, le citazioni provengono da Perché si scrive, Scrivere un romanzo, Il teschio e l’orchidea e A un giovane lettore, tutti raccolti in L’altrui mestiere. Si ringrazia infine Chiara Briganti per alcune delucidazioni e materiali, in special modo per lo scambio tra Manganelli e Levi che ebbe luogo inizialmente sulle pagine del Corriere della Sera. La foto d’apertura viene da qui.)