Il 9 febbraio del 2009 Malesangue pubblicava il suo primo post su questo sito: si trattava di un’intervista a Roberto Abbiati. Sempre in quel mese sarebbero arrivate un’intervista a un bicchiere d’acqua, un’altra ad Ascanio Celestini e un’altra ancora, non meno interessante, all’allora vescovo della Dioecesis Uritana. Seguivano poi altri post più interlocutori, chiamiamoli così, per non dire che si trattava di facezie che oggi andrebbero direttamente su Facebook. Comunque: dieci anni sono tantissimi per un sito/blog/rivista digitale – che non a caso, se parliamo di Malesangue, ha spesso cambiato pelle.

Partiamo dalla fine, e cioè dal presente: attualmente, Malesangue è questo sito + un account Instagram + un account Twitter + una pagina Facebook che si autogestisce (come ho raccontato spesso sul mio profilo personale), senza dimenticare Signorina, la newsletter con contenuti extra. In passato Malesangue è stato anche un account su FriendFeed e un Tumblr su cui scrivevo cose molto, uh, performative (una moda che si è poi spostata direttamente sui profili Facebook); in futuro non escludo che possa prendere anche altre forme.

Diciamo che col tempo Malesangue è diventato una sorta di stile mobile, una galassia di cose al cui centro non c’è niente: un cosmo in cui tutto è periferia. Più volte ho pensato di chiudere baracca, ma poi subentrava sempre la sensazione che soprattutto questo sito fosse un approdo sicuro cui fare ritorno.

Prima di aprire Malesangue venivo da altri esperimenti: due blog, uno dei quali conteneva dei racconti poi finiti nel mio primo libro; un Tumblr su cui raccontavo una tornata elettorale in provincia di Brindisi (anche quello diventato un libro); prima ancora mi ero dedicato a fanzine, blog collettivi e altre cose decisamente punk, a volte illeggibili.

Malesangue ha raccolto tutti i miei intenti e tentativi editoriali messi in piedi fino ad allora. Dopo le interviste, che si sono diradate negli anni ma sono sempre tornate, sono arrivati post più letterari, racconti, estensioni dai miei libri, estratti da opere altrui, rubriche durate giusto una stagione, altre riapparse di recente, recensioni, approfondimenti, reportage, regali di Natale, eccetera, tutto tenuto insieme da link interni e fili invisibili.

Se ci penso ora, Malesangue ha rappresentato, come ennesima prova della mia mania per l’autoproduzione, la possibilità che mi sono dato per partecipare alla vita pubblica italiana, soprattutto editoriale. Si dice – giustamente – che il web ha dato l’opportunità di esprimersi a milioni di persone che fino a trent’anni fa si sarebbero limitate a commentare le notizie dei TG tra amici e parenti, al bar o in salotto (tra l’altro problematizzando il rapporto con la finzione e la parte pubblica di sé stessi, questione che prima toccava pochissime persone sulla faccia della terra). Ebbene, per me non è stato molto diverso: se non ci fosse stato il digitale, sarei stato anch’io tra gli esclusi, non avrei certo potuto pubblicare libri e neppure mezza delle righe che oggi pubblico, più o meno con successo, su altre riviste.

Certo le cose sono molto cambiate, rispetto all’inizio: passata l’era del primo accesso di massa (direi da metà anni ’90 fino all’avvento degli smartphone sul finire del decennio scorso), da qualche anno siamo in una fase nuova, un po’ confusa e decisamente più dipendente dalla tecnologia. Quando questa storia è iniziata era sufficiente aprire un blog, scriverci dentro qualcosa di più o meno interessante, moderare i commenti e il gioco era fatto. I social ci hanno portato prima di tutto a togliere la maschera (i nickname come Malesangue, appunto) e il web da essi ridisegnato ha ridotto lo spazio per ogni attitudine naïf. Anche i blog più insulsi hanno orientato la loro scrittura in favore di una sorta di professionalizzazione del parlare di libri, per così dire, sicuramente in favore della fruizione da parte dei lettori.

Detto in altri termini, oggi la scrittura pura su un blog ha pochissimo senso: si richiede sempre di dare almeno un appiglio ai lettori, e di preparare tutta la cornice attorno (foto, tag, parole chiave, titolo, ecc.) perché ti si possa stanare facilmente su Google. Dalla possibilità dell’accesso alla (comunque inesistente) società letteraria italiana si è passati alla possibilità di vivere i propri sacrosanti cinque minuti di notorietà all’interno della stessa. Si è creata una nicchia, quella editoriale, come ce ne sono a milioni sul digitale, e a quella è consigliabile rivolgersi per ricevere dei feedback: altrimenti è tutto abbastanza vano – dall’autoproduzione all’autopromozione, insomma, e infatti a un certo punto sono arrivati i bookstagrammer e, prima ancora, le riviste, spesso poco più che un aggregato di iniziative che fino a qualche tempo prima il singolo redattore avrebbe preso in solitaria.

Sulle riviste sarebbe interessante dire qualcosa di più: ad esempio, che quelle sopravvissute nel tempo sono proprio le poche che hanno tenuto un’impostazione da collettivo e soprattutto non si sono poste troppe domande circa la sostenibilità economica, restando nell’ambito del volontariato – ma non è di questo che voglio parlare.

“La letteratura fuori dai libri”, recita lo slogan di Malesangue. Che significa? Nel momento in cui la scrittura diventava per me un lavoro, Malesangue è rimasto fuori da ogni commercio. Non nego che di tanto in tanto avrei voluto che il blog rendesse qualche spicciolo, ma di fatto non sono riuscito a farlo fruttare, e questo probabilmente perché non ho mai stabilito a quale nicchia specifica rivolgermi. Tuttavia, da qui è passata la riflessione che anima maggiormente la mia scrittura, almeno da qualche anno: ovvero, che i libri per i libri, la letteratura per la letteratura (o per il circo editoriale?) ha sempre meno spazio nella vita delle persone. Sicuramente nella mia.

Il mondo per come lo conoscevamo ci è esploso tra le mani. È un bene, è un male? Non ne ho idea, ma anche come lettore sono sempre più interessato all’elasticità del pensiero che alla plasticità di uno stile, per quanto innovativo o potente. Perciò la parola ha per me sempre più il valore di ponte, relazione, rimbalzo, di corridoio dimensionale: mi porta da una parte all’altra, mi fa conoscere e vedere e se tutto va bene alla fine del giro qualcosa in me (e magari in chi mi legge) sarà cambiato. Non credo ci sia una reale contrapposizione tra immagini e parole, tra l’altro, non voglio ripetere la solita storia per cui il romanzo sta morendo sotto i colpi di altri medium. Sto dicendo che la capacità di leggere e scrivere, di decodificare e restituire, si applica in qualsiasi contesto (anche agli esseri umani). È questo ciò che ho imparato in dieci anni di Malesangue, se vogliamo il superpotere di quest’entità che continua a governare una parte di me.

Come finisce questa storia? Forse il fatto è che non finisce. Come la scrittura a cui ci dedichiamo sul web, che è potenzialmente infinita e fluisce libera da un muro digitale all’altro, forse anche la storia di Malesangue non avrà mai fine, e in qualche modo è destinata a sopravvivermi. Al momento dura da dieci anni: mi sa che dovrei festeggiare con un’antologia, un best of o qualcosa del genere, ma fin qui non ho avuto modo di approntare niente. Be’, in fondo ho tempo fino al 9 febbraio del 2020 per provarci. Sembra un tempo infinito, ma nell’economia delle vite digitali potrebbe essere già passato. Chissà.