Siete in superstrada (probabilmente in Puglia, ma non è detto). C’è il tramonto composto di tre colori: arancio, viola e grigio. A breve, i tre colori si sommeranno per produrre il nero della notte. Le uniche luci artificiali provengono dai fanali delle auto in direzione opposta e da qualche pompa di benzina semiabbandonata sulla destra. Sempre sulla destra, un mucchio di sfasciacarrozze abbandonati, casolari di pietra e vegetazione su cui la notte è scesa da un pezzo. Questa è la musica di Oh Petroleum.
Oh Petroleum è il progetto solitario di un (ex) batterista brindisino. Che esce adesso con un disco omonimo autoprodotto e che in passato ne aveva già inciso un altro col nome di Creme (con la partecipazione di Cristina Donà). A un certo punto il tizio ha mollato l’indiepoprock per mettersi a suonare la musica del diavolo: un blues maledetto che si mischia col rock e col folk americano. Aggiungo anche lui alla lista di pugliesi che, per un motivo o per l’altro, finiscono per contribuire alla costruzione di quell’immaginario appuloamericano a cui, ovviamente, non so proprio resistere.
Ti definisci un batterista che suona la chitarra (e anche gli altri strumenti del disco, dato che fai tutto da solo). Cosa significa esattamente?
Che sono schiavo del ritmo (tanto per citare una frase, eheh). In realtà è solo una battuta per dare un’idea di quanto sia elementare il mio modo di suonare la chitarra e di rivendicare l’approccio ritmico, appunto; ammetto che a volte vorrei poter fare delle “rullate” sulle corde. Nel disco ho fatto tutto da solo, ho registrato in casa con i miei tempi, i miei orari, unica ospite è stata Sofia Brunetta, voce in Here I Stand e Ragged Jacket.
Approccio ritmico, sì. Infatti qua e là, nel disco, spuntano maracas e altre percussioni di cui non conosco il nome. Fanno pensare a una passeggiata in una sperduta campagna americana.
In realtà i luoghi geografici o i paesaggi non hanno molto spazio in queste mie canzoni. Ovviamente il suono è evocativo, ci porta oltreoceano dove la musica che più mi ha ispirato ha origine. Il mio viaggio è più interiore, è fatto sui ricordi, su un presente schiacciante, su pesanti verità. In America ci porterò il mio disco, spero presto.
All’America ci arriviamo subito. Intanto, a proposito di suoni e immagini, il colore predominante del disco a me sembra il nero. Non tanto per le venature gotiche (che pure ti hanno attribuito), quanto per la profonda matrice blues della tua voce. Faccio un esempio: credo che la tua musica (così come il nero) stia tutta negli attimi di silenzio che seguono il tremolio del cantato in Black sound.
Silenzio e nero sono due parole che possiamo considerare vicine come significato, il silenzio è importante. Lo è stato per me che ho scelto di non suonare per un periodo, in rispetto alla musica, alle parole e alle immagini che dentro si intrecciavano e si gonfiavano. Allora il mio nero, o silenzio, risuonava come da lontano, giù in profondità.
Il nero: il colore della goccia di petrolio che scende come una lacrima dall’occhio dell’uccellino sulla copertina del disco. Che hai disegnato tu. Così come ti sei occupato in prima persona del video di Not me. Perché il petrolio, Oh?
Scuro e denso, ho intinto le mani in quel Petrolio, ne ho fatto il mio nome. A spiegarne il significato, a tradurlo, comunque spiegherei ben poco, anzi nulla. Oh Petroleum, wherefore art thou…
Sì, ma. Il petrolio fa pensare comunque a qualcosa che non dura in eterno. Una risorsa che si esaurisce. Viene in mente il mito della caduta tipico della cultura americana – che troviamo in tutta la letteratura USA, così come nelle canzoni di Johnny Cash. E del resto tu canti di espiazione, battesimo, maledizioni, fughe in Mexico…
Una risorsa che si esaurisce perché viene bruciato, il petrolio, il mio nome è solo un’immagine romantica, il cui significato reale in effetti ha valore solo per due persone in questo mondo. Il resto è frutto del mio modo di scrivere, che va per immagini ricordi e sogni; è tutto vero, ho vissuto tutto ciò di cui parlo. Americane, per tornare alla tua considerazione, sono le origini del mio suono e molti tra i miei scrittori preferiti sono americani, Steinbeck, Fante, Carver…
E siamo appunto all’America. In Puglia. C’è un mucchio di gente, qui, che scrive e suona contribuendo alla costruzione di un immaginario appulo-americano. Faccio l’esempio dello scrittore Omar Di Monopoli. Però in quel caso i paesaggi desertici e senza speranza dei suoi romanzi si incontrano con la terra (desertica) che abita (il Salento tarantino di Manduria e Avetrana). Tu invece vieni da Brindisi. Una città industriale di cui si parla poco. Dov’è l’America a Brindisi?
Non so dire quanto la nascita di questo immaginario sia casuale, accidentale e se realmente se ne può identificare un’origine nel nostro territorio. Semplicemente credo che, come è stato per me, anche per altri artisti sia arrivata forte l’influenza delle enormi figure letterarie e musicali d’oltreoceano; ecco perché al nostro deserto dedichiamo un blues e non una tarantella. Brindisi, la mia città, ha perso le proprie radici contadine molto tempo prima che io nascessi: se mi viene detto folk io non penso alla pizzica ma al folk americano.
In effetti, quando dal vivo suoni da solo, diventi un jukebox di folk americano. Da Bob Dylan fino a… Creme, che era il tuo nome fino a qualche anno fa. Non voglio chiederti molto delle tue precedenti vite artistiche, ma già in Sulla collina puoi seppellire ciò che non ami più c’era il tema della sepoltura delle illusioni, ed è molto americano anche il titolo di quel disco.
Portare dal vivo un brano di un autore fondamentale per me come Dylan è un tributo a cui non rinuncerò mai, è un onore. Nel mio disco precedente c’era già presagio del suono di questo lavoro ed era anche quello un disco fortemente autobiografico. Seppellire ciò che non si ama più, conoscere la paura, capire e ripartire da zero, la collina è un luogo dello spirito, un luogo magico, di guerra e vittoria. Nel prossimo disco mi lascerò sommergere, invece.
Rimaniamo sul live. Quando invece suoni con la band in elettrico, l’approccio è molto rock. Non manca un po’ di noise, com’è nelle migliori band alternative country (penso ai Wilco). L’ultimo pezzo in scaletta è Malediction. Un titolo strano per la canzone più dolce del tuo lavoro. Che è l’ultima anche nell’album. Perché tenerla in coda?
Un disco deve suonare bene alle mie orecchie dall’inizio alla fine, è solo un fatto di equilibrio all’ascolto. Nel live ho mantenuto pressoché invariata la sequenza dei brani per comodità. Ma nel prossimo già cambieranno delle cose. Il concerto con la band ha un certo impatto, la mia esibizione in acustico, da solo, ne ha un altro, sono due momenti che voglio siano completamente diversi, ho bisogno che sia così.
Ultima domanda. Per adesso non hai un’etichetta e mi sembra che per te sia giusto così: utilizzi soprattutto Internet (Myspace, ma anche Facebook col tuo nome d’arte, insolito per un musicista) e i live. Credi sia questa la tua dimensione ideale, o che comunque sia questo il futuro del mercato discografico? Non mi sembri un collezionista di dischi.
Spero di avere un’etichetta discografica fatta da gente in gamba, è ovvio. Non ne cerco una affannosamente, sto provando a contattarne diverse all’estero, intanto faccio la mia strada in autonomia e Internet mi è molto d’aiuto. Avverto poco sulla mia pelle la crisi del mercato discografico, la mia dimensione è un’altra. Con o senza etichetta, Internet è il mio canale come per molti, posso realizzare un video e metterlo in rete senza dover chiedere il permesso a nessuno, questa è una gran cosa. Chiunque può ascoltare le mie canzoni, vedere le mie foto, chiunque può scrivere di me e pubblicare su un blog o un sito o semplicemente su Facebook. Bello, no? Il mio interesse ora è suonare dal vivo, recuperarne appieno l’emozione e guadagnare qualcosa.
Grazie, Oh.
Grazie a te, MCM.