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La ragazza ha i capelli corti, è bionda, sta in pantaloncini accovacciata a parlare in tedesco con un gruppo di tre tunisini poco fuori dal Campo. Sono tra gli ottocento che a inizio settimana hanno avuto il permesso di uscire dal Campo per una decina di ore. Quasi tutti camminano per tre chilometri fino a raggiungere Oria, più vicina rispetto a Manduria. La ragazza è una fotografa svizzera, è qui in vacanza a Pezze di Greco, sull’Adriatico. Ha saputo della tendopoli e ha pensato che fosse il caso di venire a dare un’occhiata. Ad Ahmer, l’altro giorno, un italiano ha spiegato in un pessimo francese che in italì, si tu a l’argian è turist, si tu n’a pa l’argiant, è clandestino. Ahmer ha riso e ha improvvisato uno dei balletti suoi.
Per qualche giorno, a inizio settimana, i tunisini col permesso di uscire dalle otto alle venti hanno deciso di dormire nella campagna davanti al Campo, per protesta. Vorrebbero andar via. Hanno chiesto notizie sulla visita di Berlusconi in Tunisia e si sono tranquillizzati quando hanno saputo che loro non saranno rimpatriati. Una volta tornati dentro, il trattamento mediatico della questione è finito. I giornalisti attorno al Campo sono sempre meno. La tendopoli tra Manduria e Oria finisce nelle pagine interne dei quotidiani locali.
Una cosa che si dice per rassicurare: vogliono solo andar via. Anche dall’Italia. Però Monir in Italia c’è già stato nel 2009 da clandestino, è stato rimpatriato, è tornato nel 2011 ed è pronto a riprovarci, dice sorridendo, fino al 2015. Però lui andrà in Francia, a Marsiglia dove ha parenti. Issam invece vuol rimanere in Italia. In Tunisia si occupava di pubblicità e non vorrebbe andare al nord perché, dice, «a Milano c’è la mafia». Chiede scusa per i suoi compatrioti che, violando la regola religiosa, hanno preso a bere dando problemi in città, a Oria. Dice che l’Islam è la religione la più bella del mondo e tutti dovrebbero essere musulmani.
Molti tunisini scelgono di rimanere davanti al Campo per la maggior parte del tempo, anche quello da “liberi”. Oltre ai giornalisti sono andati via molti altri italiani. Chi torna ancora, lo fa per portare vestiti. Per qualche giorno ci sono feste improvvisate: si suona la pizzica, su cui i tunisini improvvisano la canzone “Harga”. I tamburelli vengono presi in consegna dagli africani che prendono a suonare musiche dei loro paesi. Sotto agli ulivi sono accampati profughi che partecipano meno, così come altri che stanno seduti sulle mura diroccate attorno al Campo. Osservano da lontano. Alcuni bevono, fischiano quando passa una ragazza. Sono neri, mulatti, sono mischiati e per qualcuno si tratta dei primi clan organizzati sul luogo.
Ci sono due atteggiamenti. Entrambi da estirpare. Per qualcuno la vita occidentale non ha più senso e l’arrivo dei tunisini (o quel che sono) con le loro speranze e la loro disperazione non fa che confermare quest’idea. Per altri l’importante è che vadano via, o che comunque si adattino alle nostre regole. La verità è che ci siamo mischiati. E che di notte al Campo non rimane nessuno.
Oria, di notte, è territorio tunisino. Tre ne hanno investiti l’altra notte sulla strada lunga e dritta che porta in città. La città è ibridazione. Due ragazzini tunisini osservano tre ragazze del posto a bocca aperta. Un’altra è stata aggredita l’altro giorno e il tunisino che l’ha fatto, una volta tornato in tenda, è stato massacrato dagli altri profughi. La gente di Oria non protesta, dà una mano dove lo Stato si volta da un’altra parte ma è stanca della merda, del piscio e del vomito per strada. Sempre meglio che tornare a dormire in tenda, percorrendo la strada infinita verso il Campo, al buio, da sbronzi.
«Dopo che esco Campo, tra cinque giorni» dice Issam, che è solo al mondo eccetto per suo padre Mohamed che lo chiama di continuo dalla Tunisia, «dopo che io libero, solo una chose: la strada».
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