Il sud degli altri
è sempre meno duro del nostro
questo è sangue
l’altro è inchiostro
Franco Arminio

Ci sono vicende che si fanno geografia. Non raccontano solo un incrocio di avvenimenti ed emozioni, ma anche gli umori di un luogo. Per cui il racconto si fa geografia, e quest’ultima ancora storia di un posto, prima ancora che storia di uomini che abitano quel posto. Accade così, a pensarci bene, per la musica tradizionale. Non arriva solo l’eco delle storie raccontate da un luogo esotico, quanto la definizione mentale, l’atmosfera di quel luogo, che per la durata di una canzone smette di essere esotico: tu sei lì, in quel posto, a fare quel che da millenni si fa in quel posto.
Se un giorno dovessi decidermi a sistemare i libri che al momento tengo sparsi sulla scrivania e sul pavimento, se un giorno dovessi organizzarli per categorie tra gli scaffali di una libreria, credo che Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson e Terracarne di Franco Arminio finirebbero nello stesso settore. Qualcosa di molto banale, del tipo: “Scritture popolari”. Anche se parliamo di libri apparentemente molto diversi tra loro.
I racconti di Anderson sono un romanzo frammentato in pezzi autonomi. Dentro c’è la vita di una piccola comunità americana nel momento in cui l’America inizia a diventare una potenza industriale e i piccoli paesi rurali si svuotano. Winesburg, Ohio è anche il racconto di come il giovane George Willard, aspirante scrittore, arriva a maturare l’idea di lasciare la sua cittadina d’origine. Un paese che si misura sulle ambizioni e le frustrazioni dei suoi abitanti. Per temi e per alcune tendenze stilistiche, questo libro è considerato il nonno della letteratura e del cinema dell’America di oggi.
Terracarne è il racconto per brevi frammenti dei piccoli paesi dell’Italia centromeridionale. Piccole comunità, spesso di montagna, che stanno scomparendo. Franco Arminio si mette in gioco in prima persona, smettendo i panni del poeta, in quella che è la sua personalissima scienza: la paesologia. Il paesologo attraversa i paesi dell’Irpinia Orientale, della Puglia, della Lucania e della Campania lasciandosi attraversare da essi. La terra e la carne, gli umori di un luogo e quelli dell’uomo, si confondono, si svuotano l’uno nell’altro. Lo sguardo di Arminio è attualmente unico nel panorama degli scrittori italiani viventi. Egli stesso annuncia di essere alla ricerca di un umanesimo che sia sintesi e allo stesso tempo nuovo rispetto alla civiltà contadina, spazzata via dalla modernità, e inedito rispetto anche a quest’ultima, che “salva” i paesi e la loro bellezza a colpi di cemento e piani regolatori.
Ho letto questi libri distintamente, poi li ho rimasticati insieme, a partire da me, da quel che vedo nella mia comunità d’origine. Ho messo da parte il postmodernismo e il pop per leggere Anderson, preferendo lo sguardo del mito. L’America di Anderson è così indietro nel tempo da poter rappresentare e richiamare in me condizioni umane già note. L’america di Anderson è, per un italiano del 2012, antica almeno quanto la Roma imperiale. In Arminio ho poi trovato qualcosa circa la “vergogna di essere antichi”, che condanna al contrario l’Italia centromeridionale a diventare un susseguirsi di paesi di plastica e cemento, un luna park persistente e diffuso – un luogo decisamente postmoderno – accanto al quale sprofondano Pompei e Herdonia. In ogni caso ho pensato al sud come a un’allegoria del nord, e dunque al paese come all’allegoria di un Paese intero. Allo stesso modo, Winesburg, come Spoon River, racconta insieme l’America rurale e quella di Brooklyn. Agli americani, a quanto pare, piace che l’America sia raccontata ancora attraverso i deserti o i piccoli paesi.

Mi è sembrato di aver letto soprattutto due libri sulla comunità – a patto di spogliare rispettivamente il testo di Anderson dalle implicazioni narratologiche e letterarie e quello di Arminio dalla tensione morale, civile, a tratti politica che lo attraversa. Ho visto aggirarsi i fantasmi dei personaggi di Anderson nei paesi attraversati da Arminio. Personaggi lenti, accidiosi, verso cui è comunque impossibile uno sguardo privo di compassione; nell’aria la noia, la follia che è sempre lì, in agguato, che anima la vita di Elizabeth Willard e che fa dire ad Arminio, di questi posti, che sono manicomi all’aria aperta. Le vite lontane, solo immaginate, e la polvere. Il vuoto della controra, luogo del tempo che Arminio visita più spesso, contro l’estremo e notturno tentativo di colmare quel vuoto esplorato dai personaggi di Anderson. La comunità come rifugio e prigione insieme, in cui si è nemici di tutti e mai del tutto, perché in fondo ci si conosce tutti – meglio: nello spazio ristretto in cui bisogna spartire poche risorse (lavoro, denaro, donne, in una sola parola: potere), è nota a tutti, di ognuno, la parte pubblica, mentre in quella privata e oscura si implode. E dunque ancora e soprattutto quella cappa di follia che sta sullo sfondo, per cui un giorno vieni a sapere che “uno dei tuoi” (il tuo amico Enoch Robinson) è uscito di senno e non esce più di casa (mi vengono in mente “i chiusi” di Mario Desiati, e lo stesso “autismo corale” di Arminio); e dunque l’ipocondria che tappa il paesologo in casa, che lo stesso combatte andando in giro per paesi. La comunità che, dappertutto nel mondo, per essere tale ha bisogno sempre di presupporre la partenza, la possibilità – a volte solo il desiderio – di fuggire da un luogo antico, eterno, che pare vivere comunque senza i suoi abitanti. La partenza di George Willard, con cui Winesburg, Ohio si chiude, è anche un inizio, l’inizio della carriera di Willard/Anderson, la nascita di una nuova società e – tornando a noi – di un nuovo modo di fare letteratura (su questi temi, e – per inciso – sulla perdita della verginità non solo letteraria, lo stesso Anderson tornerà in seguito con Le voci del torrente). Partenza che è solo un’ipotesi in Arminio, e che proprio in quanto tale dà avvio a qualcosa di nuovo, abbandonando però il fatto letterario: all’inizio di Terracarne il paesologo, già poeta affermato, dichiara di non scrivere più per portare in giro “il feticcio del suo stile”. Quel qualcosa di nuovo è, appunto, la paesologia, la definizione delle comunità provvisorie, l’umanesimo delle montagne; ma siamo di nuovo alle tensioni civili e morali da un lato e alle implicazioni narratologiche e letterarie da un altro.
In comune questi due libri hanno comunque la poesia: cui Arminio non sa rinunciare, alla quale invece Anderson ricorre da prosatore orale o da pittore; la poesia come antidoto alla sparizione, in grado di restituire le atmosfere di luoghi che rimangono inchiodati lì, eterni, mentre gli uomini e le culture che li hanno abitati, al di là degli intenti di chi li racconta, sembrano estinguersi per approdare definitivamente all’infinito.

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