La storia che segue mi è stata raccontata dal mio amico Jack Faccia-da-cane, al quale l’aveva raccontata, se non erro, un collega; a sua volta, questo collega l’aveva sentita molti anni prima da sua moglie, che poteva chiamarsi Wanda oppure Modestine, in un ristorante di Salonicco.
«Ci sono un ragazzo e una ragazza. Si conoscono sin da bambini. Da adolescenti si innamorano e stanno un po’ insieme. C’è un litigio, oppure uno dei due fa o dice una fesseria, un mezzo tradimento o parole troppo gonfie di rancore per quell’età. Si allontanano. Scoppia la guerra. Il ragazzo viene chiamato al fronte, in un paese straniero. Non passa giorno senza che pensi alla noia, alla paura di morire e alla ragazza che ha lasciato al paese. Ogni tanto le scrive. Lei gli risponde subito, ogni volta. Poi, forse per la guerra che si dice possa arrivare anche in paese, forse anche per lei la noia o la paura di morire, ma ecco che la ragazza inizia a frequentare altri uomini, senza tuttavia smettere di pensare al suo, perso in una guerra inspiegabile – in un modo o nell’altro, ci pensa proprio così. Lui nel frattempo si innamora di una ballerina che non sfiorerà mai e che dimentica quando va con una puttana, un po’ per noia un po’ per spirito d’imitazione verso i suoi commilitoni. Si vergogna molto e solo allora smette di scrivere alla ragazza in paese. Lui non può saperlo, ma anche lei ha deciso di farla finita con quella corrispondenza, perché nel frattempo, nel paese tirato mezzo giù dalle bombe, un vecchio notaio si è innamorato di lei e le ha chiesto di sposarlo.
Quando la guerra finisce, il ragazzo, divenuto uomo nell’unico modo in cui può renderti uomo la guerra, torna in paese. Molta gente che conosceva è morta, altra è senza casa. Lui non riesce a capire cosa ha cambiato chi, o se è cambiato solo lui. Per giorni passa da una locanda all’altra, tra le poche ancora aperte, rileggendo le lettere ricevute da lei mentre era al fronte. In qualche modo pensa che la loro relazione ha un tono presente e che è tutto lì, in quelle lettere. Non può saperlo, ma anche lei ha fatto la stessa cosa, al termine della guerra, e ha pensato che nelle parole di lui c’è ancora qualcosa di vivo, al contrario del notaio, che è morto prima ancora che venissero fissate le nozze.
Quando lui e lei si incontrano, per caso, una domenica mattina, non conoscono le parole per dirsi quello che hanno pensato, ma ci mettono poco a capire che hanno ancora voglia di passare del tempo insieme. Intimamente, entrambi sanno di aver tradito e di aver fatto cose brutte e opposte, mentre erano lontani. In breve, comunque, si ritrovano e vorrebbero sposarsi, ma è come se sentissero che la storia non tiene. Così, dopo qualche mese di amore clandestino tra case venute giù e fosse comuni aperte e richiuse in fretta, decidono di dare una grande festa per celebrare la loro unione. Chiedono ad alcuni amici, attori imboscati durante la guerra, di mettere in scena ogni fase della loro storia d’amore. La festa diventa una sorta di matrimonio teatrale, in cui si rievocano l’amore e i litigi da adolescenti, la guerra, la vista della ballerina, le nozze mancate d’un soffio col notaio, e così via fino alla cerimonia celebrata davvero quella sera. Il prete è il vecchio bidello della scuola frequentata da lui e da lei, adesso ha ottantadue anni e quella notte, alla fine della festa, sarà il più ubriaco di tutti.»