Ritorno nel cimitero di Corsico per dialogare con il corvo. Il camposanto è ora ricolmo di neve sotto l’egida di un cielo estintosi per via della mano oscura di Dio. Vedo le lapidi ingombre di impronte senza umanità, mentre mi incammino nei sentieri battuti dai defunti durante la resurrezione delle scorse sere, ché nottetempo essi si mischiano alla tempesta per raggiungere malinconici le finestre delle case vissute. Nevica ancora, qui, alla notte, e i cani affondano nella neve illuminati frattanto dai lumini circonvicini.
Che il cielo possa oscurare quelle bestie delle quali intravedo le zanne scintillare nel gelo. Supero la fontana dove l’acqua è bloccata nel tempo, in aria, come una statua e rivedo il mausoleo in cui il corvo al sopraggiungere della neve si reca per nascondersi da essa. Prima però mi inginocchio per terra davanti alla tomba di lei. La cosa morta, innanzi a me sotterrata, dice al cuore che si prosciugherà presto. Grappoli di nevischio franano attorno ai miei occhi e orbato appare l’Aldilà in compagnia di lei. C’è la neve, c’è una nuova mano, c’è il freddo che supera ogni freddo, c’è il bacio afferrato da astri disonesti, ci siamo io e lei che mangiamo le carni dell’uno e dell’altra, e c’è la crocifissione di un corvo che dondola, quale carogna, dai rami dell’albero del primo bacio mio e di lei. C’è la mia ombra vicina all’albero per pregare la morte del corvo. Il gracchiare della bestia, che arriva come l’eco di una cerimonia in cappella, dice al mio sonno di ridestarmi. La neve crolla da una tenebra fitta quasi imbattibile. I cani ululano, risorti, da sotto la neve come soffocati e poi rilasciati alla vita. Maledetta sia la sorte degli animali che avvicinano l’affezione dell’uomo verso Dio.
Ingobbito dalle correnti provenienti dai crocicchi abbatto con la spalla sinistra la porta del mausoleo. L’uccello nero è davanti alla candela e mi fissa con gli occhi tristi di un piccione. Sono rossi come gli abiti di lei pieni di sangue. Cerco di raccogliere la bestia ma scompare come le ombre a noi attaccate e per gioco diabolico lontane una volta in cammino. La camera è silenziosa, giungono da lontano le urla di chi si sa da poco defunto, sibilano gli altri uccellini impauriti, oltre il mausoleo, sopra le lapidi. Sento sbattere le finestrelle delle case nei dintorni. Rimango dentro questo tempio. A pochi passi dall’ingresso c’è la tomba di lei e il corvo sta ora lì ritto sul granito ed emette versi, si fa ospite del verbo di lei. Col becco apre e chiude la parola, dice, come un ammalato senza respiro, che ci sarà anche la carne abbondante nell’Aldilà, che le labbra non cesseranno di movimentarsi, che il bacio sarà eterno, che la neve non spezzerà le ossa. Che non dovrò più recarmi in inverno nella tana del corvo affinché mi si donino questi singhiozzi inumani per convincermi a non impiccarmi nella mia camera in compagnia del coniglio immerso, sempre, nello scuro di un angolo remoto.
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Orazio Labbate | Stelle ossee