“Delle sue imprese parlava con estrema avarizia. Non era della razza di quelli che fanno le cose per poterle raccontare (come me): non amava le parole grosse, anzi, le parole. Sembrava che anche a parlare, come ad arrampicare, nessuno gli avesse insegnato; parlava come nessuno parla, diceva solo il nocciolo delle cose.”
Primo Levi | Il sistema periodico
La parola ricorrente è: montagna. Meglio: montanaro. Oppure: racconti. Oppure, ancora: New York. E poi: infanzia. Senza dimenticare: ragazze. A cui aggiungerei: monaco. O forse: asceta. Poi: Nepal. E ancora: rigore. In un certo senso: misura. Forse, anche: orgoglio. E così via.
Se volessimo ridurre uno scrittore alle parole che usa o che evoca attraverso la sua scrittura, se volessimo aspirarne il midollo con un’imponente siringa che conservi una stringa di codice letterario essenziale, se volessimo farlo col paroliberismo vagamente fascistoide di hashtag e SEO… Be’, le parole infilate in serie nel precedente paragrafo sarebbero senz’altro quelle adatte per raccontare Paolo Cognetti – argomento, prima ancora che scrittore, molto battuto da queste parti, e che mi accingo ad affrontare per l’ultima volta (o almeno credo). Ma prima un piccolo excursus para-storico.
Una fugacità in una permanenza
C’erano, all’inizio del millennio, delle voci che, per quanto nuove, al momento della loro apparizione – del loro esordio – conservavano ancora qualcosa del secolo scorso – a volte temi, altre linguaggi, altre ancora semplici atmosfere – e che solo col tempo, com’era normale che fosse, avrebbero trovato un proprio, autentico spazio d’espressione.
(Dico autentico e non nuovo perché quella dell’innovazione è una frottola di fine impero: e il fatto stesso di dare del secolo al ’900 mentre sin da subito si è osata la dicitura di millennio col Duemila – non a caso quello in numeri, quest’altro in lettere – dà forse la misura di un certo tipo di aspettative che si avevano a fine anni ’90 e soprattutto nei cosiddetti Anni Zero.)
Un simile sommovimento – nel senso pure di movimento ancora sotterraneo, inesplicabile per i viventi – era presente tanto in letteratura quanto in altri campi: si pensi, parlando di musica, ai Radiohead, che proprio nel Duemila pubblicavano un album come Kid A, opera tanto sconvolgente da sembrare venuta al tempo stesso da un futuro lontanissimo e che tuttavia si portava dietro, in almeno un paio di canzoni, una lingua musicale e un’atmosfera decisamente anni ’90, da ibridazione uomo-macchina non ancora del tutto compiuta – poi sappiamo tutti com’è andata: un disco dopo l’altro, la band di Oxford ha dato vita a una lingua e a un’estetica musicale a-temporale e del tutto personale, fuori dalla paranoia dell’innovazione a tutti i costi e dalla necessità di paragoni col passato.
Tornando alla letteratura e dunque a Paolo Cognetti, potremmo dire che il suo, in piccolo, è stato un percorso simile a quello descritto col nostro excursus para-storico: arrivato in libreria per la prima volta nel 2004 con Manuale per ragazze di successo, Paolo Cognetti ha intrapreso un cammino piuttosto ordinato – o almeno così sembra a osservarlo oggi – verso se stesso: un cammino che lo ha reso un autore pienamente contemporaneo – il che non significa attuale, come vedremo – soprattutto con Le otto montagne, opera che potrebbe andare sotto l’etichetta di romanzo globale – non a caso in grado di andare subito oltre i confini linguistici del mercato editoriale italiano.
Anche quella di Paolo Cognetti, insomma, è una storia di evoluzione personale, più che di innovazione (anche e soprattutto, ovviamente, rispetto a quella dei Radiohead in campo musicale), e allo stesso tempo, in un certo senso, di ritorno a casa. Ma andiamo con ordine.
Questa voce
Abbiamo parlato di ’900 che si prolunga e appare ancora, come spettro, nel nuovo millennio; e in effetti, nelle sue prime opere Paolo Cognetti si portava appresso l’attenzione per una cosetta tipicamente da secolo scorso, ovvero la meccanica: meccanica del racconto, delle ragazze, dell’industria automobilistica, che dava vita a una serie di storie di ispirazione tipicamente americana e, più in generale, a tutta un’aria – sia di metropoli che di provincia – piuttosto familiare, almeno per chi era cresciuto all’ombra di un immaginario e di un’estetica occidentali – cioè il plotone d’esecuzione culturale che ha dominato il secolo scorso.
Una trasposizione letteraria di intenti da lettore, forse, più che da scrittore, percorsi in lungo e in largo in tutto il ciclo di Sofia: dal già citato Manuale per ragazze di successo fino all’andirivieni temporale dello stesso Sofia si veste sempre di nero, passando per i puntuali e appassionati reportage da New York e poi quelli verso l’interno, nelle pozze più profonde della scrittura di racconti.
Ma lo stesso nome Sofia, in fondo, rimandando all’idea di saggezza e conoscenza di sé o della materia, della sostanza originale che fa di noi quel che siamo e che siamo disposti a offrire agli altri, suggeriva che quel ciclo sarebbe arrivato a esaurirsi; e così, una volta scovata e confermata la propria voce, per Paolo Cognetti arrivava l’èra del ragazzo selvatico, la definitiva e irrinunciabile scoperta di sé, del proprio, inevitabile immaginario.
Questa voce, però. Nipotino di Hemingway, Salinger e Carver (semplificando), Paolo Cognetti l’aveva già e andava ben oltre la scarnificazione e il restare all’osso degli avi americani (le ossa, semmai, erano più un fatto tematico, mentre qui si stava piuttosto al nocciolo delle cose). C’era già, nel ciclo di Sofia, una voce accorata, per quanto mai disposta a deporre le armi della levigatura in favore di colori e tonalità aggettivali/avverbiali, una voce d’intorno a un fuoco, quello del racconto orale, del racconto tramandato e sussurrato al lettore con precisione, tenacia, affetto. Un racconto di materia, anche quando s’immergeva, come Sofia alla fine del suo vestire di nero, nelle pozze dell’alterità da sé stessi, di certe psicografie mentali. Così come non c’erano ampollosità linguistiche o sintattiche, nello stile del primo Paolo Cognetti, pure mancavano del tutto trasfigurazioni metafisiche, post-esotiche, surreali – niente gatti trasformati in tigri invisibili alla Julio Cortázar, per dire: tutto stava dalla parte dell’iceberg appena visibile in superficie, o ancora alla pietra, alla fondazione dell’umanità.
E proprio come una pietra osservata attraverso uno specchio d’acqua limpidissima, la voce di Paolo Cognetti si faceva sempre più pulita e insieme piena; a sua volta, il letto di un fiume che portava già un’avvisaglia di scrittura futura, specie nel prediligere la divagazione da passeggiata walseriana al rapporto di causa-effetto di stampo romanzesco. Un raccontare assorto, da bordone indiano improvvisato su un tema soltanto, e che pian piano avrebbe sostituito del tutto o quasi la meccanica dell’intreccio, della trama, ossia, restando in ambito musicale, del ritornello che in genere tiene incollati noi lettori occidentali alla pagina – e insieme a quella avrebbe pian piano iniziato a dismettere anche il conflitto, che già nel primo Paolo Cognetti non era mai troppo drammatizzato, mai così lacerato, lacerante e divisivo come nei soliti drammoni borghesi italiani, come se in fondo l’autore volesse troppo bene ai suoi personaggi per tramortirci del tutto con le loro tragedie – come se in fondo, soprattutto, il tema stesso del conflitto non appartenesse del tutto a quest’autore che già allora sembrava preferirvi quello dell’armonia.
E così si evolvevano, di pari passo alla voce, anche gli altri temi: dall’infanzia e dalle ragazze weird della prima ora si passava al rapporto tra padri e figli adulti (e maschi in genere), alla conoscenza della natura (ma senza ermeneutica antropomorfizzante) de Il ragazzo selvatico, se vogliamo il libro-crocicchio di tutto questo cammino, il momento cioè in cui il vecchio Paolo Cognetti e quello compiuto convivevano ancora, a testimonianza di un percorso fatto comunque di compenetrazione, di compresenza tra l’origine e l’approdo – proprio come i residui di ’900 all’interno del Duemila: una fugacità in una permanenza, per citare, stavolta sì, il lontanissimo Cortázar.
Uscire
Per riassumere un po’ tutto il cammino di Paolo Cognetti fin qui descritto, può essere utile tornare ai Radiohead e in particolare alla passeggiata melanconica di Thom Yorke raccontata dal regista Paul Thomas Anderson nel videoclip di Daydreaming.
Dunque, ricapitolando: abbiamo prima un Paolo Cognetti metropolitano e domestico, che visitava le città per studiarle dall’interno di ambienti familiari; poi un altro intermedio, che riprendeva confidenza con la natura intuita da bambino, però ancora dall’interno di un ambiente chiuso – il rifugio di montagna de Il ragazzo selvatico – e poi, finalmente, il Paolo Cognetti libero, che si lasciava alle spalle ogni interno, inclusi i loculi di villaggi di vacanza estivi, per andare incontro al paesaggio e raccontare secondo quei ritmi, secondo quelle scansioni temporali, secondo quelle concatenazioni di causa-effetto che quasi mai corrispondo ai conflitti e alle complessità degli esseri umani – avvicinandosi al ritmo del cuore di un feto antico, che, come Thom Yorke nel finale di Daydreaming, respira e riporta il fuoco all’interno della caverna.
E siamo così a Le otto montagne, all’approdo compiuto che non a caso corrisponde anche al passaggio, da parte di Paolo Cognetti, dalla forma breve a quella lunga – più che a quello, come hanno scritto in molti, dal racconto al romanzo: in fondo erano forme brevi, ibridi tra racconto e memoir, anche i capitoli di alcuni dei suoi saggi (nonché i post, molto godibili, del suo seguitissimo blog).
Un approdo che è anche è un avvicinamento a quell’armonia cui si accennava in precedenza, ben presente nel periodare assorto, quasi orale de Le otto montagne, nei suoi impareggiabili discorsi da montanari e ritratti di valli e alture e sentieri battuti nel corso dei secoli. Una meraviglia, nel senso di stupore per la scoperta di paesaggi insoliti, almeno per il sottoscritto – che, pur portando nel cognome la montagna, leggeva il libro nei giorni di un’inaspettata nevicata di pianura pugliese, lo scorso gennaio (forse il regalo involontario che avevo chiesto anni fa a Paolo?); meraviglia in parte mitigata quando qui e lì compariva ancora un accenno di trama, d’intreccio – e in questo senso appariva forse più libero di andarsene a zonzo tra pensieri e intenti proprio Il ragazzo selvatico, per quanto animato da una voce ancora acerba – sì: se Le otto montagne fosse stato un libro di puro racconto montanaro, di paesaggio, di rapporto tra narratore e natura in cui il narratore scompare del tutto, sarebbe stato perfetto (sempre che la perfezione abbia qualche importanza).
A questo punto del suo percorso letterario, e siamo a oggi, Paolo Cognetti si trova ad aver ormai affrontato questa mutazione; mutazione che, pur graduale, può apparire forse più netta se paragonata a una sorta di passaggio da Occidente a Oriente: un Oriente legato al gusto del racconto per il racconto che fa sopravvivere alla notte, al racconto felice, cioè, perché destinato ai vivi – e che pure testimonia l’impossibilità di separare ormai lo scrittore dalla sua scrittura, così com’era un tempo per l’arte orientale vista da noi occidentali; un Oriente interiore e per nulla esotico, a dirla tutta, più che il Nepal de Le otto montagne; per quanto proprio in Nepal Pietro – l’alter ego di Paolo Cognetti già presente nel ciclo di Sofia – venga a conoscenza della storia di queste otto montagne, una vecchia leggenda del posto secondo cui c’è chi va in giro (in circolo) per il mondo a scoprire nuove cime da scalare, e chi invece resta al centro di quel giro, di quel cerchio, a scalare la sua, di montagna – la più alta, come accade all’altro protagonista del libro, l’amico d’infanzia Bruno.
Ovviamente, leggendo Le otto montagne siamo portati a pensare che Paolo Cognetti coincida interamente col Pietro che se ne va per vette altrui; ma da un altro, e guarda caso leggendo proprio il lontanissimo Cortázar, potremmo arrivare a una conclusione diversa.
Ascolta, montanaro
Nel Diario di Andrés Fava, Cortázar s’inventa un dialogo tra questo Andrés e un suo collega: i due sono persi nella solita diatriba tra arte colta e arte, diremmo, popolare, o tra arte virtuale e arte reale (per dirla col Ben Lerner di Odiare la poesia). La metafora, anche qui, è quella della montagna, e non solo sembra raccontare, in parte, il rapporto tra Pietro e Bruno, quanto suggerire pure l’idea che… Ma ascoltiamo le parole di Cortázar.
«Il peggio è vedere come le grandi idee – democrazia, morale, eccetera; fascismo, potere, eccetera – non solo condizionano la realtà immediata dell’uomo, ma lo inducono a nasconderla, a sacrificare la piccola cerchia alla grande. Quando si pensa alla Musica, è un male per le musiche povere. Mi dirai: “Attraverso le musiche si ascende alla Musica.” Ragion di più per non dimenticare che la scala è una somma di gradini. Puoi dirmi qualcosa di più grave: “Il raggiungimento della cima esige l’abbandono della valle.” Ma ascolta, montanaro: se ti privi del refrigerio della valle, della sua tenera frescura, con cosa salirai in cima? E poi, quando si è in cima, che c’è da guardare se non la valle?»
Ora, il sospetto – il mio buon sospetto, nonché la tesi che cerco di dimostrare dall’inizio di questo pezzo – è che sì, Paolo Cognetti sia andato in America e poi in montagna, e poi in Nepal, e poi di nuovo a Milano per tornare definitivamente in disparte, ancora da solitario montanaro – certo, Paolo Cognetti si è disperso in ogni direzione, ma forse quella strada era un cerchio; l’impressione, insomma, è che Paolo Cognetti non abbia fatto altro, proprio come Bruno, che scalare sempre la stessa montagna: la montagna della sua scrittura, della sua voce, del suo racconto personale. Ha intrapreso grandi viaggi, Paolo Cognetti, e allo stesso tempo non ha mai smesso di affidarsi ai dettagli, agli attrezzi e ai piccoli accorgimenti con cui si costruiscono i rifugi sul dorso della prima montagna che incontriamo da bambini.
E senza neppure accorgersene – forse non ce ne siamo accorti neppure noi lettori –, evitando le slavine che di solito investono chi troppo indaga se stesso, alla fine Paolo Cognetti è arrivato in cima.
Adesso, da quella cima Paolo Cognetti può raccontare con questa voce non inedita né particolarmente innovatrice, ma di certo rinnovata e soprattutto sua, mentre osserva, giù nella valle, Sofia, Marta, Pietro, Mina, Bruno, Roberto, Rossana, Margot e tutti gli altri, tutte queste cose piccole ma buone, esplose e inesplose, in un cammino che è stato l’evoluzione di uno scrittore che per sua stessa ammissione – e per fortuna dei suoi lettori – non è stato né sarà mai attuale, questo no, ma certamente resta sempre in cerca di ciò che in genere chiamiamo universale – che riguardi l’uomo o la natura, in ogni caso una materia che, per usare le parole di Andrés Fava/Cortázar, sta tanto nella scala quanto nella somma dei singoli gradini.
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(Ho scritto questo pezzo su Paolo Cognetti perché tempo fa, da qualche parte in questa serie di post sull’ormai proverbiale libro che sto scrivendo da più di un anno, avevo promesso che avrei parlato del mio ultimo incontro con lui; e poi perché proprio a Paolo ho raccontato il libro, la materia che tratta – mentre qui continuo evidentemente a prenderla alla larga. Ad ogni modo, ho realizzato subito che non sarei riuscito a scrivere nulla di troppo personale su quest’incontro. E non so perché. Sarà perché è stato strano rivedere Paolo dopo cinque anni che sembrano esser passati decisamente in fretta per entrambi, davvero non ne ho idea. Posso solo dire che dal vivo Paolo è un po’ la rappresentazione vivente della regola dell’iceberg dell’amato Hemingway: ne intuisci solo un frammento, il resto, la maggior parte, rimane sott’acqua. So per certo, però, che io e Paolo ci siamo capiti, cinque anni fa come l’ultima volta, per via di certe risate facete scambiate a tavola. Il resto, se lo raccontassi, o quantomeno se lo raccontassi ora, sarebbe semplicemente pornografia. E perciò mi fermo, e come al solito rilancio dicendo che anche questa storia continua, forse…)
discorso condivisibile e conmoltiplicabile, quello che porti avanti qui. anche perché, in effetti, la storia certamente continua, almeno finché esisteranno almeno due esseri umani. epperò gira irrimediabilmente in cerchio, come già intuito dal buon Vico più di qualche secolo fa. Cognetti è un autore che ho imparato ad amare, ma lo preferivo in divenire. almeno l’impressione era quella di poter arrivare (da qualche altra parte).
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Mi hai fatto tornare in mente questo splendido film: https://wwayne.wordpress.com/2017/01/29/inseguire-un-sogno/. Se non l’hai visto, te lo consiglio caldamente.
No, non l’ho visto, ma ne ho sentito parlare molto bene, in effetti
Sono convinto che ne rimarresti estasiato anche tu. Ti ringrazio per la risposta, e soprattutto per i tanti commenti che hai lasciato sul mio blog: sei una risorsa preziosa per i piacevolissimi dibattiti che nascono quando pubblico un nuovo post. 🙂
Mi sa che c’è un equivoco: non credo d’aver mai lasciato commenti sul tuo blog (in genere ne lascio pochini…) 🙂
Allora forse le nostre conversazioni precedenti si sono svolte tutte sul tuo blog. Comunque, nel mio ti accoglierò sempre a braccia aperte! 🙂 Spero di risentirti presto, sul mio blog o sul tuo! 🙂